http://heval.altervista.org/contro-mafie-e-potentati-non-si-costituiscono-altri-poteri-ma-ribellioni-colorate-e-senzindugio/
*Continueremo a fare delle nostre vite poesie, fino a quando libertà non
verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi
(Vittorio Vik Utopia Arrigoni)*
*“Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In
Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa
stessa […] l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è
sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non
possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere” (Cos’è questo
golpe? Io So. Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera del 14 novembre
1974). *
Mi è capitato molto spesso negli ultimi tempi (dove per ultimi in realtà va
inteso un discretamente lungo orizzonte temporale) di ripensare a queste
parole. Pasolini si riferiva al PCI che accusava di “silenzi” nei confronti
dello stragismo. Ma in realtà questa riflessione si potrebbe estendere a
tante “opposizioni” che alla fine si son ritrovate a comportarsi “come
uomini di potere”. A volte consapevolmente, a volte no. A volte anche nella
più profonda buonafede, altre in una malafede dal fetore insopportabile. Il
rapporto con il Potere, il (rischio di) concepirsi come Potere, sono
questioni ancora oggi attualissime. Tornando indietro di non moltissimi
anni, basti pensare ai movimenti pacifisti e antiglobalizzazione, che
proprio su questo si son dilaniati. Sia ben chiaro, non si sta parlando
della ricerca di una via istituzionale tout court, lo stesso Peppino
Impastato (rimasto ribelle, rivoluzionario, mai amalgamato al Sistema fino
all’ultimo dei suoi giorni) aveva deciso di candidarsi. Ma di ben altro: il
cominciare a parlare o tacere a seconda delle convenienze, a lisciare il
pelo a qualcuno di “forte e potente” se lo si ritiene utile, al costruire
tatticismi e politicismi che lasciano in secondo piano il cuore del
conflitto e della spinta ideale, etica, politica che dovrebbe essere il
centro di tutto. Peppino Impastato, Pippo Fava, non si son mai preoccupati
di calcoli, pseudo-ideologismi settari e autoreferenziali che alla fine
portano solo autocompiacimento e a non fare un accidenti (parafrasando
Peppino Impastato potremmo scrivere i “rivoluzionari” che non
“rivoluzionano un cazzo”), convenienze. Prendevano il microfono e la penna
e denunciavano, documentavano, ricostruivano, mettevano a nudo Re e
principi, imperatori e signorotti, mafiosi e baroni. Quando invece si
comincia a pensare che quella mafia o quella guerra si potrebbe anche
accettare, quando non si sente l’obbligo ardente di denunciare e alzare la
voce, quando si pensa che “c’è altro di più importante, che conviene di più
fare” Peppino torna ad essere ucciso, si comincia a vedersi come Potere,
anche se si afferma di essere “opposizione al potere”.
Rita Atria scrisse dopo la morte di Borsellino che, per combattere le
mafie, si deve fare “un auto-esame di coscienza” e, solo dopo averla
sconfitta dentro di noi, si potrà combatterla fuori. Perché la mafia è nel
“modo sbagliato di comportarsi” di ognuno. Quando si parla di lotta contro
le mafie la lingua italiana ci regala uno dei suoi termini più nobili ma
anche più “trappola”: antimafie. Perché l’antimafia in questi decenni è
diventata l’occasione delle più alte espressioni dell’impegno civile,
politico, etico. Ma anche il suo contrario. E’ diventata anche
un’etichetta, un marchio, un’apparenza da sventolare dietro cui si è
nascosto – in alcuni casi per quanto rari – il peggio possibile. E si è
creato un grandissimo equivoco di fondo, non si è contro le mafie perché ci
si proclama antimafioso, non si è antimafioso perché si sventola o si va in
parata. Chiedo scusa se può apparire una personale autocitazione di non
molti giorni fa: la mentalità mafiosa è molto più penetrante, infestante,
devastante di un qualsivoglia recinto chiuso fatto di legalità formale,
affidamento ad istituzioni borghesi et similia. Anche perché legalità non
sempre fa rima con giustizia e libertà. E la realtà, ancor di più nel paese
dei depistaggi, delle trame, delle trattative, delle complicità e
convivenze con mafie e camorre di ogni risma, è un pochetto più complicato.
Le storie di Peppino e Rita stanno lì a dimostrarlo. Si ritrovarono
entrambi infatti, prima di ogni altra cosa, a sfidare le proprie famiglie,
a combattere contro quel familismo amorale – ipocrita e bigotto –
dell’abitudine a tutto, del conformismo, del “togliersi il cappello”
davanti “a chi comanda”. Quella ribellione che ben descrisse l’anno scorso
in un’intervista Salvo Vitale. Raccontò che Peppino era “diverso” perché
non era mai stato “*omogeneo con le regole della società mafiosa dentro la
quale si era trovato ad agire”, *che non si girava mai dall’altro lato
perché* “il malessere di coloro che subivano ingiustizie, diventava il suo
malessere”. *Sempre. E tutto questo porta solo ad una strada: la rottura*
“con i parametri del buon vivere, della convivenza attraverso l’ipocrisia
borghese, la sua radicale rottura con il modello educativo familiare,
fatto di imperativi e di norme comportamentali che si era obbligati a
rispettare”. *Così come l’antimafia non è un recinto chiuso, non esiste
un’affiliazione antimafia, non esiste un unico movimento, una sorta di
anagrafe d’iscrizione, non lo sono le mafie. Perché mafie non sono solo le
dichiarate organizzazioni criminali, terminale di un cancro che divora
molto più profondo. Le mafie iniziano davanti casa nostra, nelle strade e
nelle piazze che frequentiamo quotidianamente. Lì dove sorgono e dominano
prevaricazioni, clientele, legge del più forte, servilismo, accucciarsi a
Potenti e potentati. Lì dove si deve scegliere tra l’omertà, l’ipocrisia e
il perbenismo borghesi, l’essere pupo e scimmietta signorsi o essere
liberi, umani, ribelli, tra il “me ne frego” fascista o la lotta contro le
classi dominanti, contro le catene dell’oppressione dei padroni di ogni
risma e latitudine. Le “classiche” organizzazioni mafiose, camorristiche, i
loro squallidi e criminali affari crescono lì dove domina il primo
versante, dove si piega la testa e un capitalismo sempre più disumano e
vorace può scatenare la sua violenta oppressione.
Viviamo tempi bui, a dir poco difficili. L’individualismo, la ricerca del
profitto personale a scapito dell’altro, derive più o meno fasciste che
alimentano egoismi sociali e lotte tra l’ultimo e il penultimo, spingono
verso clientele sempre più diffuse, a trasformare sempre più diritti
minacciati e calpestati in privilegi personali da chiedere al “sovrano”, a
chiudere tutti e due gli occhi (e non solo quelli) di fronte alle
ingiustizie, a spezzare qualsiasi vincolo solidale, al menefreghismo di
fronte a quel che ci circonda. Ma c’è sempre speranza, c’è sempre la
possibilità di andare avanti, di non arrendersi. “A che serve vivere se non
c’è il coraggio di lottare?” domandava Pippo Fava. Vivere serve ancora. In
questi giorni, come ogni anno, migliaia di giovani sono giunti a Cinisi per
commemorare Peppino. Tra loro ci sarà anche chi l’avrà visto solo come “un
giorno di vacanza”, chi sarà stato trascinato da qualcuno, chi alla fine
tornando a casa chiuderà gli occhi davanti al bullo che picchia il compagno
di scuola più debole, chi crescendo troverà una “famigghia” che gli dirà di
andare a fare il lacché di qualcuno per farsi raccomandare, o di farsi i
“cazzi propri”. Ma ci sarà anche sempre qualcuno che invece sarà stato
scaldato per sempre da Peppino, che s’impegnerà per spezzare ogni familismo
amorale, che non rispetterà mai l’omertà, che s’impegnerà per rendere
questo mondo migliore di come l’ha trovato.
In questi giorni compie dieci anni Casablanca, la rivista che continua a
resistere nonostante le difficoltà, le avversità, la mancanza di grandi
fondi e risorse diretta da Graziella Proto, tenacissima e mai doma,
intransigente e coerente. Così come resistono Riccardo Orioles, punto di
riferimento per generazioni di giornalisti, e la rete de I Siciliani
Giovani. Una rete dove convivono straordinarie realtà locali di
controinformazione e impegno civile, giornalisti con la schiena dritta
(perché ci sono eccome anche in quest’Italia di oggi), giovani e meno
giovani costretti anche a fare i pizza taxi o i camerieri per cercare di
andare avanti mentre scrivono e documentano. Mi sia permesso, in questo, un
piccolo appunto personale ringraziando l’Associazione Antimafie Rita Atria,
che in questi anni mi sta dando l’opportunità di conoscere e frequentare
persone straordinarie, da cui ogni giorno continuo ad imparare la bellezza
e il profumo della libertà, della militanza, dell’impegno etico e morale
coerente e mai prono.
C’è chi continua a non arrendersi alla devastazione del proprio territorio,
alla morte di decine, centinaia, migliaia di persone per “calamità
naturali” le cui cause tanto naturali non sono, o tumori le cui cause tutti
conoscono ma (quasi) nessuno vuol dire. Ci sono sempre compagni veri che
lottano contro padroni e baroni, senza mai arrendersi ad una politica
piccola incapace di qualsivoglia slancio vitale ma che sopravvive solo di
tatticismo e misero interesse di bottega. Ogni volta che questo succede,
ogni volta che al grigiore del compromesso e del potere si risponderà con i
colori della ribellione più autentica e vera, parafrasando il buon vecchio
caro Guccini, da qualche parte Peppino, Pippo, Rita ritornano e continuano
a vivere.
*Alessio Di Florio*