[nuovopci] Avviso ai naviganti 37 - Il movimento comunista r…

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Author: \(nuovo\) Partito comunista italiano
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To: npci.inter
Subject: [nuovopci] Avviso ai naviganti 37 - Il movimento comunista rinasce perché supera i suoi limiti...


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_AVVISO AI NAVIGANTI 37_

14 gennaio 2014

(SCARICATE IL TESTO IN VERSIONE OPEN OFFICE [4], PDF [5] O WORD [6] )

Il partito comunista non è il partito delle rivendicazioni, delle
proteste e delle denunce. È il partito che mobilita, organizza e dirige
la classe operaia e il resto delle masse popolari a costruire il proprio
potere conquistando una posizione dopo l'altra a spese della borghesia e
del clero fino ad eliminare completamente il loro potere.

 

IL MOVIMENTO COMUNISTA RINASCE PERCHÉ SUPERA I SUOI LIMITI CHE GLI HANNO
IMPEDITO DI CONDURRE LA PRIMA ONDATA DELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA FINO
ALL’INSTAURAZIONE DEL SOCIALISMO IN TUTTO IL MONDO!

 

Alla diffusione del Comunicato CC 2/2014 - 11 gennaio 2014 (saluto del
CC del nuovo PCI al II congresso di Comunisti Sinistra Popolare) alcuni
membri e simpatizzanti di CSP hanno reagito alcuni rimproverandoci di
esagerare quando diciamo che la sinistra del PCI dopo il 1945 non sapeva
cosa fare per fare la rivoluzione socialista, altri sostenendo che le
quattro questioni indicate nel Comunicato (i quattro limiti che dobbiamo
superare) sono "punti oscuri".

L'importanza delle loro obiezioni è tale che dedichiamo ad esse questo
_Avviso ai naviganti_.

Prendiamo Pietro Secchia come esponente rappresentativo della sinistra
del PCI, cioè di quella parte che era convinta che era possibile
instaurare il socialismo in Italia (quindi in disaccordo con le tesi che
Oliviero Diliberto proclama ancora oggi, di cui abbiamo detto nel
Comunicato) e voleva instaurare il socialismo. Pietro Secchia era
certamente scontento della linea che Togliatti e i suoi soci imponevano
nel PCI. Ma quale linea proponeva? Ha mai proposto una linea, andando
oltre il manifestare a destra e a manca, in Italia e all'estero il suo
malcontento per la linea di Togliatti e mostrare che con quella linea
Togliatti portava alla liquidazione il Partito che si era costruito
lottando contro il fascismo e che conducendo la Resistenza aveva
conquistato una larga egemonia? L'articolo _Pietro Secchia, un altro
punto di vista nel PCI [7]_di Marco Rizzo che riportiamo in Appendice
conferma pienamente la nostra affermazione, senza volerlo e forse senza
che Rizzo neanche se ne renda conto. Infatti attingendo al racconto di
Giorgio Bocca, Rizzo racconta che Togliatti (infastidito perché non può
accettare uno scontro di linea: normalmente la destra evita lo scontro
di linea) alle insistenze di Secchia su una questione di tattica (sulla
necessità di accelerare ed approfondire la battaglia politica nel
contesto dell'opposizione in Senato alla Legge Truffa presentata dalla
DC - 1953), risponde: "Già, e poi che facciamo, la rivoluzione?". A
Togliatti Secchia non replica esponendo la successione di passi da fare
per arrivare posizione dopo posizione alla conquista del potere e
all'instaurazione del socialismo, ma succube e malcontento risponde:
"No, non facciamo la rivoluzione. Ma a sentire te non facciamo mai
niente!". E già le parole di questa povera replica di Secchia, secondo
Rizzo "certamente risuonavano come un atto di grave insubordinazione".
Perché Rizzo giustifica, anzi esalta la sottomissione della sinistra
alla destra nel PCI in nome della disciplina. Ma è questa la disciplina
che fa del partito comunista lo Stato Maggiore della rivoluzione
socialista?

La storia del partito comunista russo è tutta una storia di lotte
condotte dalla sinistra capeggiata Lenin contro le varie e successive
deviazioni della destra: cioè di quella parte che recalcitrava di fronte
ai passi di volta in volta divenuti necessari sulla via della
rivoluzione. Ancora alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre Lenin
(_Lettera ai membri del Comitato Centrale del POSDR_, 6 novembre 1917 in
_Opere complete_ vol. 26 pagg. 220-221) mise il Comitato Centrale del
suo Partito di fronte al suo dovere di cacciare alcuni membri dello
stesso CC che erano contro la presa del potere.

Succeduto a Lenin alla testa del Partito comunista sovietico, Stalin non
cessò un attimo di condurre apertamente nel Partito una lotta accanita
contro i trotzkisti e tutti gli altri membri del Partito e del suo CC
che si opponevano al mantenimento e consolidamento del potere in Russia
(i Diliberto russi di allora) e al suo ruolo di base rossa della
rivoluzione proletaria mondiale.

Solo finché nel Partito comunista la sinistra mantenne l'iniziativa
della lotta contro i portavoce della destra che si susseguivano man mano
che la rivoluzione socialista avanzava, fu possibile mantenere nel
partito una salda disciplina e rinvigorirlo come Stato Maggiore della
rivoluzione socialista.

In nome di quale disciplina comunista Secchia, portavoce della sinistra,
avrebbe dovuto assoggettarsi alla linea di Togliatti che corrompeva e
disgregava il PCI e lo sospingeva su una strada che lo avrebbe condotto
a subire la direzione dei Berlinguer, degli Occhetto, dei D'Alema e dei
Bertinotti, fino alla competa disgregazione?

Che la sinistra del PCI non sapesse come proseguire la rivoluzione
socialista dopo la vittoria della Resistenza, è dimostrato dallo stesso
Secchia, dalla sua rassegnazione alla linea di Togliatti. Quando mai nel
PCI si è sviluppata una lotta di principio tra la linea patrocinata da
Togliatti e una linea di avanzamento della rivoluzione di cui Secchia
sarebbe stato il portavoce? Proprio perché tutta una serie di indizi
indicano che Secchia non era contento della linea promossa da Togliatti,
è giocoforza concludere che non sapeva opporre una linea rivoluzionaria
a Togliatti che patrocinava la linea della convivenza nella Repubblica
Pontificia e nelle sue istituzioni.

È quello che mostra anche l'articolo _Pietro Secchia e due importanti
lezioni [8]_ della compagna Rosa L. che abbiamo pubblicato nel n. 26 di
_La Voce_ (2007) e ripubblichiamo in appendice a questo _Avviso ai
naviganti_.

È strano che la sinistra pur opponendosi alla destra non sapesse che
cosa fare? No, è la situazione che in Italia si era presentata anche nel
Biennio Rosso (1919-1920). Tutte le ricostruzioni storiche del Biennio
Rosso (da Paolo Spriano, _Storia del Partito comunista italiano_ a Renzo
Del Carria, _Proletari senza rivoluzione_) ci dicono che la destra del
PSI e della CGIL si opponeva alla rivoluzione, ma ci dicono anche che la
sinistra, gran parte della quale poi nel gennaio 1921 costituì il PCI,
non aveva alcuna idea di come proseguire la battaglia dell'occupazione
delle fabbriche e che, anzi, aveva dato quella battaglia costretta dalla
"forza delle cose", dall'iniziativa degli industriali. Gramsci stesso
riconobbe che questo era stato il corso delle cose e proprio per questo
dedicò i suoi anni di prigionia a studiare (_Quaderni del carcere_) come
fare la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti, seguendo
l'esortazione fatta da Lenin ai comunisti europei nella sua relazione
(_Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione
mondiale [9]_) al IV congresso dell'Internazionale Comunista (1922).

Traendo lezione da queste esperienze e dagli insegnamenti del movimento
comunista internazionale, noi siamo arrivati alla conclusione che la
strategia della rivoluzione socialista è la Guerra Popolare
Rivoluzionaria [10]: il partito comunista deve mobilitare, organizzare e
dirigere la classe operaia e il resto delle masse popolari a costruire
già all'interno della società borghese il Nuovo Potere, conquistando una
posizione dopo l'altra fino al punto che il Nuovo Potere elimini il
potere della borghesia e del clero. Il partito deve condurre campagne
una in sinergia con l'altra e una dopo l'altra che sfociano in questo
risultato. Ogni campagna è giusta solo se porta a questo risultato. Ogni
battaglia deve concorrere al successo di una campagna. Ogni operazione
ha senso solo se concorre a vincere una battaglia.

Questo è il senso della prima delle quattro questioni che abbiamo posto
nel Comunicato CC 2/2014: "_la rivoluzione socialista non ha la forma di
un'insurrezione popolare che scoppia nel corso della quale il partito
comunista prende il potere, ma ha la forma di una guerra popolare
rivoluzionaria che il partito promuove e nel corso della quale,
conquistando posizione dopo posizione, costruisce il Nuovo Potere fino a
distruggere il potere della borghesia e del clero". _Rivendicazioni,
proteste e denunce hanno un ruolo solo se sono "ingredienti" della
guerra contro la borghesia e il clero.

Togliatti aveva buon gioco a porre Secchia di fronte al dilemma: o
cedere alla DC o fare l'insurrezione. E Secchia doveva cedere a
Togliatti perché lui, che aveva diretto l'insurrezione del 25 aprile
1945, riconosceva che non esistevano le condizioni per un'insurrezione
vittoriosa e non sapeva indicare quali passi compiere per arrivarci.

Marco Rizzo condivide la concezione di Secchia: opporsi ma non avere una
linea per costruire il Nuovo Potere, ridurre il partito comunista a
partito delle rivendicazioni, delle proteste e delle denunce. Infatti
nello scritto che riportiamo in Appendice, Rizzo dice: "Persino nei
paesi che erano stati liberati dall'Armata Rossa non si pose subito (nel
1945, ndr) l'obiettivo del socialismo, ma si crearono dei governi di
coalizione di partiti patriottici in cui i partiti comunisti e operai
partecipavano. Questi partiti comunisti uscivano da una dittatura
tremenda e ancora dovevano guadagnare la stima e la direzione,
l'egemonia diremmo gramscianamente, sulla politica nazionale".

Ma forse che il PCI, che usciva da una dittatura tremenda, si era prima
guadagnato l'egemonia sulla classe operaia e sulle masse popolari per
poi lanciare la Resistenza o aveva approfittato del crollo del regime e
dello sbandamento del regio esercito e lanciato la Resistenza e proprio
conducendo la Resistenza aveva conquistato una vasta egemonia?
L'egemonia Marco Rizzo la concepisce come premessa del potere (quindi
come egemonia culturale, d'opinione, elettorale, come seguito e
consenso), anziché come attributo del potere, come combinazione di
convinzione e di coercizione, come azione del partito che promuove la
partecipazione delle masse popolari alla guerra contro la borghesia e il
clero combinando campagne, battaglie e operazioni tattiche. Il Partito
conquista l'egemonia nella classe operaia e nelle masse popolari via via
che mostra che, sotto la sua direzione, riescono a risolvere i loro
problemi e sottomettere la borghesia e il clero. Se aspetta
l'approvazione prima e senza la dimostrazione, finisce come è finito il
PCI. È la tesi che Rosa L. sostiene illustrando anche lei le condizioni
del dopo guerra nell'articolo sopra indicato. Rizzo è succube del
travisamento togliattiano di Lenin e di Gramsci e della concezione
materialista-dialettica di questi a proposito dell'egemonia del Partito
comunista.

Con questo riteniamo che la prima delle quattro questioni non sia più un
punto oscuro. Chiunque concepisce la rivoluzione socialista come
un'insurrezione popolare nel corso della quale il partito comunista
prende il potere, prima o poi arriva a un punto morto, a un punto in cui
il Partito non riesce più a prendere l'iniziativa. F. Engels aveva già
nel 1895 messo in guardia i socialisti tedeschi da questa concezione
(Introduzione a _Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850_ di K.
Marx).

Quanto alla seconda questione, essa è la sintesi della storia del PCI
dal 1945 al 1990, a oggi. La lotta tra le due linee (della sinistra
contro la destra) è strumento ineliminabile di vita e di sviluppo del
partito comunista, indispensabile sorgente della sua disciplina da Stato
Maggiore della rivoluzione socialista (centralismo democratico): la
disciplina risulta dalla capacità della sinistra di prevalere e
avanzare, altrimenti è necrosi del partito e lo porta alla morte. È
quello che dimostra la storia di tutti i partiti comunisti. La
disciplina non deve mai essere sottomissione della sinistra alla destra,
di chi vuole proseguire la rivoluzione socialista e instaurare il
socialismo a chi vuole la concertazione e la convivenza con la
borghesia. Una simile disciplina porta alla disgregazione, alla
corruzione e in definitiva alla dissoluzione del partito comunista.
Certo le masse non vogliono la rivoluzione socialista allo stesso modo
in cui la vuole un soggetto politico: la loro volontà si esprime nel
fatto che non aderiscono a un partito che pur dicendosi comunista non fa
avanzare la rivoluzione socialista (è la sintesi della triste storia dei
gruppi trotzkisti, bordighisti, ecc. che pur si dicono comunisti) o in
un modo o nell'altro, prima o poi lo abbandonano se vi hanno aderito (è
la triste storia del PCI dal 1950 in poi). I comunisti invece sono
soggetti politici: mostrano la loro volontà di fare la rivoluzione
socialista elaborando e attuando la linea per farla. La lotta tra le due
linee (della sinistra contro la destra) è condizione necessaria di vita
del partito comunista, perché l'influenza ideologica e politica della
borghesia si riflette per forza di cose anche nel partito comunista e la
sua ala destra ne è la personificazione.

La terza questione è la traduzione della seconda in termini
organizzativi, di formazione dei membri e degli organismi del Partito
comunista. I comunisti non possono lasciarsi guidare dal senso comune
(dalle abitudini, dalle idee, dalla mentalità) dettato 1. dalle
condizioni di asservimento a cui sono costrette le masse popolari e la
stessa classe operaia nella società borghese e 2. dall'egemonia
economica, culturale e politica della borghesia e del clero. Ogni membro
del Partito comunista deve compiere uno sforzo particolare per
trasformare la propria concezione del mondo e assimilare la concezione
comunista del mondo, quindi anche per trasformare la propria mentalità e
in una qualche misura anche la propria personalità. Solo grazie a questa
rivoluzione intellettuale e morale che parte da loro stessi i comunisti
riescono a costituire un partito capace di dirigere la rivoluzione
socialista, di impedire che nelle loro file crescano e prevalgano loschi
individui come Giorgio Napolitano e i suoi complici. I comunisti sono
oggetto oltre che soggetto della rivoluzione socialista e per essere in
grado di trasformare il mondo devono trasformarsi man mano che
trasformano il mondo. Il partito comunista non deve accettare nelle sue
file e tanto meno tollerare individui che vi portano la mentalità e la
concezione della classe da cui provengono, che si attengono al senso
comune che la borghesia, il clero le condizioni e relazioni servili
creano e mantengono tra le masse popolari. Il Partito deve educare ogni
suo membro, ogni suo membro deve essere disposto a trasformarsi, il
Partito deve dare modo a ogni suo membro di trasformarsi e dare alla
rivoluzione socialista il massimo contributo di cui è capace. Questo è
l'aspetto principale della linea organizzativa del Partito. Il partito
comunista è un partito democratico proprio perché dà già oggi a ogni suo
membro gli strumenti intellettuali e morali necessari per partecipare
alla rivoluzione socialista (per partecipare ad attuare la linea del
Partito e ad elaborare la sua analisi, la sua linea e la sua concezione
del mondo): quello che nella società socialista la dittatura del
proletariato darà a ogni persona (in questo in definitiva consiste
l'estinzione dello Stato).

La quarta questione riguarda la situazione rivoluzionaria. Il PCI non
aveva preparato la lotta armata al fascismo. Ma quando il corso delle
cose e l'indicazione dell'Internazionale la posero all'ordine del
giorno, vi fecero fronte con onore e successo. Se dopo il 1945 la crisi
generale del capitalismo avesse ripreso subito il suo corso che la
guerra aveva interrotto (perfino negli USA di Roosevelt solo il riarmo,
la forniture di guerra alla Gran Bretagna e poi l'ingresso diretto in
guerra posero fine alla disoccupazione di massa e rimisero in marcia a
pieno ritmo l'economia), in Italia e negli altri paesi imperialisti
europei i nuovi regimi borghesi, e tra essi la Repubblica Pontificia,
difficilmente si sarebbero consolidati. Se la crisi del capitalismo
avesse ripreso il suo corso, come tutti allora pensavano, la destra del
PCI (impersonata da Togliatti) si sarebbe trovata in difficoltà e la
sinistra sarebbe stata spinta un avanti dalle circostanze (dalla
situazione rivoluzionaria). Ma i paesi capitalisti nella prima metà del
secolo scorso erano in preda a una crisi generale per sovraccumulazione
assoluta di capitale a cui la seconda guerra mondiale aveva dato una
pausa che sarebbe durata trent'anni circa (1945-1975). Quindi solo
l'azione consapevole del Partito comunista, guidato dalla concezione
della rivoluzione socialista come guerra popolare rivoluzionaria che
avanza conquistando una posizione dopo l'altra, poteva dare continuità
alla rivoluzione guidando la classe operaia a tenere il potere
conquistato con la Resistenza e prendere in mano essa, con i CNL, la
ricostruzione economica del paese: compiendo quest'opera avrebbe
consolidato e allargato la sua egemonia fino ad eliminare, dopo la Corte
dei Savoia, anche la Corte Pontificia e ogni potere della borghesia e
del clero.

Oggi nei paesi imperialisti il movimento comunista è ancora in preda
allo sbandamento ideologico (nel campo della teoria e della politica),
sconvolto, stordito e disgregato dalla sconfitta subita dalla prima
ondata della rivoluzione proletaria. In questo momento chi grida contro
la lotta in campo teorico, opera contro la rinascita del movimento
comunista. Solo con una concezione del mondo d'avanguardia, il movimento
comunista può rinascere. Rinascerà guidando le masse popolari e la
classe operaia a far fronte alla crisi del capitalismo, a cambiare il
corso delle cose imposto dalla borghesia e dal clero. Solo grazie a una
concezione d'avanguardia il Partito comunista è capace di elaborare una
linea giusta e tattiche efficaci, a partire dallo stato attuale delle
nostre forze. Questo è il terreno su cui devono impegnarsi i comunisti.

************

APPENDICE 1

Articolo dal sito http://www.comunistisinistrapopolare.com

PIETRO SECCHIA, UN ALTRO PUNTO DI VISTA NEL PCI [7]

18 dicembre 2013 di csp [11]

_Nell'anniversario della sua nascita, uno scritto di Marco Rizzo._

Nel ricordare oggi la figura del grande comunista Pietro Secchia a
centodieci anni dalla sua nascita, il mitico comandante Vineis, oltre
naturalmente a invitare a leggere e studiare i numerosi scritti che ci
ha lasciato, vorremmo ricordare che l'esperienza politica che stiamo
vivendo arriva proprio da lì, da quel ceppo, da quel filone. Lo diciamo
senza spocchia, consci dei nostri profondi limiti, avendo la piena
percezione di esser "nani seduti sulle spalle di giganti". Se andiamo a
ritroso la nostra recente storia di Comunisti Sinistra Popolare,
nell'intrapresa di iniziare ad essere il Partito Comunista in Italia,
nasce nel 2009 , ma arriva direttamente dalla storia di Interstampa, dei
Centri Culturali Marxisti e della cosiddetta corrente filosovietica del
PCI di Armando Cossutta che, nel complesso incontro con quei prestigiosi
dirigenti "secchiani" (Alberganti, Vaia, Bera ed altri) costituì negli
anni '80 le fondamenta per tenere aperta la questione comunista in
Italia (col tentativo poi fallito di Rifondazione e del Pdci).

E' utile e necessario cercare di capire ed approfondire un 'punto di
vista', quello di Pietro Secchia, diverso da quello di Togliatti e della
maggioranza del gruppo dirigente del PCI del dopoguerra. Nelle nostre
tesi congressuali :
http://issuu.com/pc-agitprop/docs/documento_politico_congresso_csp-pc
[12] spieghiamo quale poteva esser una diversa strada del comunismo
italiano. Ed è proprio a quella, all'originale opera di Pietro Secchia,
che desideriamo diffondere e far conoscere nel solco degli insegnamenti
di Antonio Gramsci (molto diverso da quello che ci hanno propinato
sinora) che vorremmo usare come base di ragionamento storico e teorico
per la nostra azione politica.

Iniziamo ricordando l'intervento di Marcello Graziosi, _Pietro Secchia:
Vita di un Rivoluzionario_ al convegno "LA RESISTENZA ACCUSA - Pietro
Secchia antifascista, partigiano, comunista", tenutosi a Torino il 16
aprile 2005, nonché la testimonianza diretta, veramente commovente, di
un suo compagno di lotte, Giorgio Caralli, _Come ho conosciuto Pietro
Secchia_ allo stesso convegno.

Questi due interventi:

(Graziosi)
http://www.resistenze.org/sito/ma/di/se/050416ps/mdse5d21.htm [13]

e (Caralli)
http://www.resistenze.org/sito/ma/di/se/050416ps/mdse5f11.htm [14]

ci restituiscono due cose fondamentali dell'attività di Pietro Secchia.

Il primo sintetizza molti degli aspetti teorici e politici coinvolti in
tale attività, che attraversa tutta la storia del PCI, dagli anni della
clandestinità, al periodo della Resistenza, e in ultimo il dopoguerra
fino alla sua morte avvenuta nel 1973.

Il secondo ci dà uno spaccato di tutto quello che i suoi contemporanei
vedevano e di cui può restare traccia solo di riflesso nei suoi scritti.
Ricordiamo infatti che la gran parte delle polemiche che si sviluppavano
dentro il partito potevano trasparire solo marginalmente, attraverso
episodi più o meno emblematici, a causa del costante stato di
accerchiamento in cui il PCI operò prima durante e dopo la guerra e
della disciplina che, da vero comunista, Secchia sempre si impose,
perfino dopo la sua estromissione avvenuta nel 1954, non a caso dopo la
morte del compagno Stalin.

Quindi quelle "sfumature", quegli "accenti" diversi devono essere letti
con molta attenzione e valutandone tutto l'impatto che essi avevano
dentro il partito.

Tre sono i punti che vogliamo qui evidenziare: 1) la svolta di Salerno,
2) il significato di "democrazia progressiva", 3) la concezione del
partito,

LA SVOLTA DI SALERNO

Quando Togliatti nel 1944 aprì ai badogliani nel governo costituitosi
nella zona liberata d'Italia, ancora tutto il nord doveva essere
liberato e lì la lotta contro il nazifascismo era combattuta da
comunisti (per la maggior parte), socialisti e azionisti, nonché da
formazioni cattoliche. Quindi in questa situazione gli equilibri
politici del sud erano del tutto lontani.

Ricorda Secchia:

«Anche dopo la "svolta" di Napoli e di Salerno, se più grande fu lo
sforzo unitario, non venne mai meno la nostra attenzione sulla direzione
da imprimere al movimento, all'obiettivo: lotta per una democrazia
progressiva. Valga per tutte la posizione che assumemmo per fare dei CLN
degli organismi rappresentativi delle masse e degli organi di potere, ed
ancora alla vigilia dell'insurrezione (ne parleremo più avanti), il 10
aprile 1945, con la famosa direttiva n. 16. Guai se in quei giorni ci
fossimo lasciati invischiare dal feticismo dell'unità e se per timore di
urtare questo o quest'altro personaggio o gruppo politico avessimo
capitolato di fronte a coloro che manovravano per impedire
l'insurrezione!

Infine non risponde a verità l'affermazione fatta da diverse parti che
noi dopo la "svolta" di Napoli, per le esigenze della lotta unitaria,
accantonammo le istanze sindacali, le rivendicazioni economiche e
sociali.

Non accantonammo mai la lotta di classe, gli scioperi si susseguirono
sino all'ultimo. Certo vi era un interesse generale della nazione col
quale dovevano essere coordinati gli interessi particolari, ma noi
comunisti non ritenemmo mai che gli interessi della classe operaia
fossero in contrasto con quelli nazionali. Al contrario, la lotta di
classe potenziava la lotta di liberazione nazionale. Riuscimmo a fare
accettare dal CLNAI il principio, ma soprattutto la pratica, dei grandi
scioperi e dello sciopero generale! Sempre dall'inizio alla fine della
guerra la Resistenza italiana fu caratterizzata dall'intrecciarsi della
lotta armata con le lotte di massa. Tutti gli scioperi politici
organizzati durante la Resistenza partivano ed avevano come base delle
rivendicazioni economiche, sociali. La lotta era indirizzata contro i
nazifascisti e contro i grandi industriali collaborazionisti. Le
direttive in tal senso erano chiare ed esplicite.»

Da queste parole appare chiaro che non si subordinò alla "ragion di
stato" l'attività insurrezionale di massa, anzi si rafforzò il ruolo del
CLN come base del contropotere in quel momento e soprattutto nella
prospettiva successiva alla fine della guerra.

Questa dicotomia, sopita fin tanto che l'Italia era divisa in due,
esplose successivamente alla fine della guerra, quando il PCI iniziò a
perdere le posizioni di contropotere nei luoghi di lavoro e nella
società che aveva acquisito, puntando tutto sul rispetto della legalità
costituzionale anche dopo la sua espulsione dal governo De Gasperi.

Giorgio Bocca, nella sua biografia di Togliatti, riporta un episodio
indicativo, testimoniatogli dallo stesso Secchia, nel contesto della
dura opposizione organizzata dallo stesso al Senato contro la
legge-truffa. Alle insistenze di quest'ultimo sulla necessità di
accelerare ed approfondire la battaglia politica, Togliatti avrebbe
risposto: "Già, e poi che facciamo, la rivoluzione?". "No, - avrebbe
controbattuto Secchia - non facciamo la rivoluzione. Ma se ascoltiamo te
non facciamo mai niente".

Queste parole certamente risuonavano come un atto di grave
insubordinazione che infatti da lì a breve Secchia pagò pesantemente con
l'estromissione dalla Segreteria e con un'umiliante documento di
autocritica assolutamente spropositato rispetto alle accuse rivoltegli
in merito a un caso di malversazione di un suo collaboratore, atto
rimasto oscuro ancora oggi.

LA DEMOCRAZIA PROGRESSIVA

Ciò ci introduce all'altro tema su cui Secchia camminò sul filo del
rasoio, quello della democrazia progressiva.

I resistenti comunisti sapevano che la lotta non doveva fermarsi alla
caduta del fascismo, ma doveva continuare nella direzione del socialismo
in Italia. Quali erano però le strade da percorrere per arrivare a
questo traguardo nessuno poteva saperlo. Persino nei paesi che erano
stati liberati dall'Armata Rossa non si pose subito l'obiettivo del
socialismo, ma si crearono dei governi di coalizione di partiti
patriottici in cui i partiti comunisti e operai partecipavano. Questi
partiti uscivano da una dittatura tremenda e ancora dovevano guadagnare
la stima e la direzione, l'egemonia diremmo gramscianamente, sulla
politica nazionale. Naturalmente da questa parte della Cortina di Ferro
la situazione era molto più complicata, data la presenza delle truppe
anglo-americane che assunsero già nel 1945 un atteggiamento fortemente
anticomunista. Anche dopo la loro partenza i vecchi centri di potere
fascisti che erano subito stati restaurati e la sovversione USA contro
le libere scelte del popolo italiano condizionarono la politica del PCI.
A maggior ragione in Italia, sebbene il PCI avesse aumentato
straordinariamente la sua forza e la sua influenza, non si poneva
all'ordine del giorno la rottura insurrezionale, ma invece
l'accumulazione di forze sempre più vaste di consenso e di costruzione
del contropotere popolare in fabbrica e nella società, basato sulla
struttura dei vecchi CLN. In questo senso la parola d'ordine "democrazia
progressiva" era pienamente giustificata se a tale termine si attribuiva
il senso già detto di accumulazione delle forze e transizione verso una
situazione rivoluzionaria.

Le condizioni ci sarebbero state tutte. Moltissimi resistenti non
vollero sapere di cedere le armi e anzi le nascosero, ma sarebbero stati
molti di più se la politica del PCI gliel'avesse richiesto. Non è vero
che il sud avrebbe costituito una specie di Vandea reazionaria che
avrebbe spaccato il Paese in due, come le vittorie elettorali in Sicilia
del 1947 e i vasti movimenti di occupazione delle terre in tutto il sud
testimoniavano. Il sistema di potere burocratico fascista e prefascista
era stato spazzato via, ma invece ritorno in pochissimo tempo senza
significative resistenze (ricordiamo in proposito l'assalto alla
Prefettura di Milano condotta da Paietta alla notizia della destituzione
del prefetto partigiano, fermata e sconfessata dallo stesso Togliatti),
anzi con la famosa amnistia che cancellò i crimini fascisti e aprì le
porte ai resistenti combattenti.

Invece la "democrazia progressiva" fu interpretata da Togliatti solo in
senso legalitario, disarmando ideologicamente e organizzativamente il
contropotere popolare e puntando tutto sull'alleanza tra i partiti
popolari non sui i ceti e le classi che essi rappresentavano, cercando
di spaccare questi partiti - a cominciare dalla DC dopo il 1948 e poi il
PSI dopo il centrosinistra - e non ad acquisire alle proprie lotte i
ceti e le classi che essi rappresentavano. Questo errore di visione
strategica, questa concezione dello stato repubblicano nato dalla
resistenza come di uno stato che non era né del proletariato né della
borghesia, solo perché c'era un pezzo di carta che si chiama
Costituzione su cui c'era la firma di comunisti, fu la base dei
successivi disastri.

In questo quindi Secchia aveva le idee chiare come dimostra nella sua
_Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca_ nel dicembre
del 1947

«Il pericolo della situazione italiana sta nel fatto che le forze
conservatrici e reazionarie con alla testa De Gasperi e la DC non
adottano la tattica della lotta frontale, ma quella del carciofo,
strappano una foglia oggi ed una foglia domani, ci tolgono oggi un
diritto, domani una posizione, dopodomani attuano un'altra misura
reazionaria e di passo in passo insensibilmente siamo portati a cedere
terreno ed a trovarci in posizione sempre più critica. Il pericolo sta
nel fatto di non apprezzare appieno il valore delle posizioni che di
volta in volta si perdono, di ragionare all'incirca in questo modo: "non
vale la pena di impegnare una grande battaglia per una questione che non
è fondamentale e che può compromettere tutto, vedremo poi". E cosi di
posizione in posizione, che considerate ad una ad una possono non essere
di grande importanza, si finisce poi, nel complesso, col perdere le
posizioni decisive. Un regime clericale, allo stesso modo di quello
fascista, non lo si realizza di colpo. Oggi la situazione italiana è
tale che a mio modo di vedere possiamo ancora prendere l'offensiva, vi
sono le forze per farlo e se il nemico cercasse di sbarrarci la strada
con la violenza, malgrado le misure che con l'aiuto dell'imperialismo
americano già ha preso, tuttavia noi disponiamo ancora di un potenziale
di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni loro violenza e di
portare i lavoratori italiani al successo decisivo.

Per contro ho il timore che, malgrado il gran numero di nostri iscritti
al partito e ai sindacati, le posizioni nei comuni, nelle province, in
Parlamento, la larga influenza che abbiamo, ecc. se non ci impegniamo
con decisione, se il governo De Gasperi dovesse consolidarsi, si
creerebbe per noi una situazione sempre più difficile, una situazione di
cedimento e di ritirata tale che ci porterebbe via via a perdere tutto e
ad aver perso tutto, a trovarci in un regime diverso, di tipo
reazionario, senza neppure avere dato battaglia.»

Purtroppo in Italia questa battaglia non si fece. Nonostante il
Cominform, nato proprio nel 1947 per riorganizzare l'attività dei
Partiti comunisti nel mondo, avesse bollato l'attività del PCI come
"attendista e irresoluta", persino il momento preinsurrezionale
provocato dall'attentato a Togliatti fu lasciato passare "senza neppure
aver dato battaglia".

LA CONCEZIONE DEL PARTITO

Anche nella concezione del partito Pietro Secchia camminò su un crinale
delicatissimo. La sua commemorazione alla morte del compagno Stalin, _La
più grande eredità di Stalin: il Partito comunista_, è una pagina di
alta formazione ideologica.

«…la forza del partito comunista sta in primo luogo nel fatto che esso è
composto in grande maggioranza da operai, che esso è il partito della
classe operaia…»

«Il compagno Stalin ha caratterizzato con particolare chiarezza e
profondità le particolarità del partito di tipo nuovo: "Il partito
dev'essere prima di tutto il reparto di avanguardia della classe
operaia. Il partito deve assorbire tutti i migliori elementi della
classe operaia, la loro esperienza, il loro spirito rivoluzionario, la
loro devozione sconfinata alla causa del proletariato".»

Questo brano è davvero straordinario. Mentre il concetto di partito di
tipo nuovo diventava sinonimo di partito di massa e non più di quadri,
Secchia fa di tutto per dare a questo termine un significato di tipo
completamente opposto. Il partito di tipo nuovo è un partito che non
perde la sua natura di essere il reparto di avanguardia del
proletariato, quindi di quadri, ma si radica nelle masse e allarga i
propri ranghi, diventando sempre più forte, quindi partito di massa, in
questa accezione che tutti capiamo oggi quanto sia distante dal partito
in cui le cellule vengono sostituite dalle sezioni, i militanti dagli
iscritti e i quadri operai dagli intellettuali piccolo-borghesi, così
come si fece in un solo colpo nel fatidico anno 1956 all'VIII Congresso.


Sono tanti anche gli altri episodi che si potrebbero citare del
particolare non allineamento di Secchia, dal tentativo di non rompere il
campo socialista dopo lo strappo Mosca-Pechino, alla massima attenzione
che egli sempre rivolse al mondo dei giovani, mai demonizzandoli, ma
stando sempre attento alle loro domande anche se spesso negli ultimi
tempi queste erano in rotta di collisione col suo partito.

Non possiamo infine non ricordare l'ultimo suo atto politico. Il suo
viaggio in Cile nel 1973 quando consigliò al presidente Allende di
armare il popolo per affrontare la sovversione imperialista. Allende non
lo ascoltò e pagò lui con la vita e con anni e anni di dittatura
tremenda il suo paese. Secchia al ritorno fu colpito da un oscuro male
che lo portò alla morte.

In conclusione la figura di Pietro Secchia racchiude in sé tutti i
tormenti che i comunisti italiani hanno attraversato nella loro storia.
Un militante e dirigente sempre disciplinato, al limite della rottura,
figlio di una grande epoca di rivoluzionari da cui non possiamo fare
altro che imparare, con modestia e determinazione. In tal senso ci
permettiamo di suggerire , tra le innumerevoli opere di Secchia, questi
testi che , sempre grazie all'opera dei compagni di Resistenze, possiamo
ora divulgare tra tutti i compagni, a partire dalle nuove generazioni
che si dovranno far guidare da questi lucidi insegnamenti:

_La biografia di Pietro Secchia
1903-1973_http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpbiog.htm [15]

_L'arte dell'organizzazione
_http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcp6d07.htm [16]

_La più grande eredità di Stalin: il Partito comunista
_http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpdb28-012363.htm [17]

_I giovani della fondazione del P.C.I. alla Resistenza
_http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custca21-010342.htm [18]

_Discorso al Senato della Repubblica sul Comandante Moranino
_http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpbf18-009235.htm [19]

************

APPENDICE 2

da _La Voce_ n. 26, luglio 2007

PIETRO SECCHIA E DUE IMPORTANTI LEZIONI di Rosa L.

Leggere anche il rapporto sulla situazione della lotta di classe in
Italia [20] e sulle sue prospettive presentato da Pietro Secchia nel
1947, sessanta anni fa, trent'anni dopo la Rivoluzione d'Ottobre, alla
Sezione Esteri del CC del PCUS

Abbiamo più volte detto, sostenuto e argomentato che il revisionismo
moderno è un prodotto dell'influenza della borghesia nelle fila del
movimento comunista. Il movimento comunista è in grado di difendersi con
successo dall'influenza della borghesia. Cioè _è in grado_ di impedire
che quelli che la subiscono, la impersonano e si fanno portavoce di essa
nel movimento comunista, prendano la direzione del movimento comunista
(come è accaduto già due volte su grande scala: negli ultimi decenni del
secolo XIX e nella seconda metà del secolo XX) o anche solo assumano un
ruolo importante nel determinare la concezione, l'orientamento, la linea
e il metodo d'azione del movimento comunista. Al contrario il movimento
comunista _non è in grado_ di impedire che la borghesia eserciti una
certa sua influenza nelle fila del movimento comunista (così come la
borghesia non è in grado di impedire che il movimento comunista eserciti
una sua influenza nel campo della borghesia). (1) Finché la borghesia
esisterà, finché vivremo in una società borghese e quindi finché il
movimento comunista lotterà contro l'ordinamento sociale borghese, la
borghesia, oltre a contrapporsi frontalmente al movimento comunista,
eserciterà anche una certa influenza all'interno di esso. Il movimento
comunista deve e dovrà quindi mettere in campo una specifica lotta per
contrastare questa influenza, per contenere i suoi effetti, per limitare
i suoi danni. Ignorare questa influenza, affermare o pensare che questa
influenza non esiste, che siamo in grado di impedirla, è cosa molto
pericolosa. Attenua o addirittura elimina la vigilanza contro di essa,
con effetti nefasti: lascia via libera allo sviluppo dell'influenza
della borghesia, all'ala destra del movimento comunista, ai
revisionisti. Proprio la mancanza o la scarsa coscienza di questo fronte
di lotta ha per due volte facilitato il successo del revisionismo. (2)

L'influenza che la borghesia esercita nelle fila del movimento comunista
produce due effetti, per alcuni aspetti contrapposti.

1. L'opportunismo: la concezione, l'orientamento, la linea di quelli che
sottovalutano i contrasti di classe, sminuiscono l'importanza della
lotta di classe, cercano di trovare modi per conciliare gli interessi di
classe e far desistere il movimento comunista dalla lotta di classe,
inducono a rassegnarsi all'oppressione e alla subordinazione di classe.

2. Il dogmatismo e il settarismo. Nell'attività corrente, e ancora più
di fronte alle gradi e brusche svolte del corso delle cose, il movimento
comunista deve comprendere nuove situazioni, nuovi fenomeni, nuovi
gruppi sociali e altre cose nuove. Deve tracciare una linea giusta per
la sua attività di fronte ad essi. Il marxismo è la scienza della lotta
della classe operaia per creare la società comunista, è una scienza
ancora in sviluppo come lo è il suo soggetto, è una guida per la lotta
di classe, è una guida per l'azione. Quindi nelle fila del movimento
comunista si aprono contraddizioni 1. tra il vecchio e il nuovo (occorre
tenere conto di nuovi elementi, aspetti e fattori o non vi è niente di
sostanzialmente nuovo e chi parla di "nuovo" in realtà perde solo tempo
e distoglie dai compiti reali?) e 2. tra il vero e il falso (quale delle
interpretazioni del nuovo, quale degli approfondimenti nella
comprensione delle vecchie cose è giusto e quali sono falsi?).
Ovviamente la borghesia ha le sue posizioni e le sue interpretazioni su
ogni novità e su ogni aspetto della realtà. Cerca di farle penetrare nel
movimento comunista. Trova terreno favorevole sia nelle persone e negli
strati più arretrati sia nelle persone e negli strati (dirigenti,
intellettuali, benestanti, aristocrazia operaia) più esposti alla sua
influenza. Ha interesse a impedire che il movimento comunista abbia una
giusta comprensione del nuovo e trae vantaggio da opinioni e linee
errate che si affermano nel movimento comunista. Quindi l'influenza
della borghesia e la lotta contro di essa (cioè la contraddizione
antagonista proletariato-borghesia) si combinano sempre in qualche modo
con le contraddizioni interne al movimento comunista tra il nuovo e il
vecchio e tra il vero e il falso. La paura dell'influenza borghese
spinge alcuni compagni ad arroccarsi sulle vecchie posizioni, a non
riconoscere il nuovo, il differente, lo specifico: in breve ad una forma
di dogmatismo. Per paura di soggiacere all'influenza borghese alcuni
compagni rifiutano di sentire ragioni e si limitano a verità generali o
restano attaccati a verità superate dagli eventi o da conoscenze più
profonde. Rifiutano di analizzare le divisioni in campo nemico, di
trattare diversamente le varie frazioni del nemico, di individuare,
isolare e battere in ogni fase il nemico principale delle masse popolari
e del movimento comunista, in generale di essere duttili nella tattica.
Il secondo effetto che l'influenza borghese produce nel movimento
comunista è quindi il dogmatismo e il settarismo. D'altra parte
dogmatismo e settarismo trovano alimento nella cultura metafisica e
idealista della borghesia e della Chiesa. Questa cultura procede per
idee e concetti fissi, universali ed eterni (sono opera di Dio), fa
derivare la realtà dalle idee (la materia dallo spirito), coltiva la
teoria per la teoria (accademia), non usa la teoria come metodo per
conoscere e trasformare, è all'opposto della nostra tesi che "la verità,
ogni verità è sempre concreta" (cioè relativa, legata alla pratica, al
particolare e allo specifico). Essa offre insomma un vasto e allettante
terreno al dogmatismo e al settarismo.

Abbiamo inoltre più volte detto, sostenuto e argomentato che se
l'influenza borghese prevale nelle fila del movimento comunista e i suoi
portavoce prendono quindi la direzione del movimento comunista (come è
già accaduto due volte su grande scala), _la causa principale di questo
tragico evento sta negli errori ripetuti e nei limiti della sinistra_,
cioè della parte del movimento comunista che è più devota, che è devota
senza riserve alla causa del movimento comunista.

Questo fatto è confermato dall'analisi dei due successi su larga scala
conseguiti dai revisionisti sopra indicati ed è di enorme importanza
pratica. (3) Proprio esso ci rende sicuri che è possibile impedire il
successo dell'influenza borghese. La chiave della sua vittoria _non è_
nelle mani della borghesia. Se così fosse, noi non saremmo in grado di
impedire il successo della sua influenza nel movimento comunista; quindi
la nostra causa potrebbe trionfare solo grazie alla buona volontà della
borghesia o a suoi ripetuti e gravi errori nell'esercitare la sua
influenza nel nostro campo. La chiave del successo dell'influenza della
borghesia _non è_ nemmeno nelle mani della destra del movimento
comunista, cioè della sua parte più arretrata o della sua parte più
esposta all'influenza della borghesia, meno ardente e determinata nella
lotta di classe. Se così fosse, anche in questo caso noi non saremmo in
grado di impedire il successo dell'influenza della borghesia nel
movimento comunista, dato che nel movimento comunista ci sarà sempre una
destra, per la natura stessa del movimento comunista. (4) E lo stesso
vale, ad un livello superiore, anche per il partito comunista.

Niente di tutto questo. La storia del movimento comunista mostra
chiaramente che è la parte più avanzata e più devota alla causa che ha
in mano la chiave della nostra vittoria. Se essa non fa troppi errori e
se supera i suoi limiti di concezione del mondo e di metodo in una
misura adeguata alle necessità della situazione e dei compiti oggettivi
del movimento comunista, ciò che essa vuole, lo realizzerà. I destini
della rivoluzione sono nelle mani dei veri comunisti. Questa è la base
del nostro ottimismo e del rigore intellettuale, morale e politico che i
comunisti esigono e devono esigere da se stessi. Il movimento comunista
può vincere. La sua vittoria dipende principalmente da noi comunisti.
Ogni bilancio dell'esperienza e ogni analisi della realtà che non si
fonda su questo principio, sono sbagliati.

Ma la storia del movimento comunista conferma veramente questa tesi: che
il successo dei revisionisti è dovuto agli errori e ai limiti della
sinistra? Per capire in che senso le cose sono andate veramente così,
consideriamo in dettaglio un periodo importante del movimento comunista
del nostro paese: il secondo dopoguerra, gli anni 1945-1948. La
pubblicazione da parte della casa editrice La Città del Sole (Napoli
2006) di _Il partito, le masse e l'assalto al cielo_, raccolta di
scritti di Pietro Secchia a cura di Marcello Graziosi, mette a
disposizione dei comunisti uno scritto prezioso per questa verifica: il
rapporto che P. Secchia tenne alla fine del 1947 alla Sezione Esteri del
CC del Partito comunista dell'Unione Sovietica (i numeri di pagina
indicati nel seguito tra parentesi per ogni citazione si riferiscono a
questa edizione). In questo rapporto Secchia fa il punto sulla lotta di
classe svoltasi tra l'aprile 1945 e la fine del 1947 e indica quale deve
essere secondo lui la linea da seguire e quali sono le prospettive del
movimento comunista in Italia.

Nel periodo successivo alla vittoria delle insurrezioni dell'aprile 1945
la lotta di classe doveva decidere se il nostro paese prendeva la strada
del socialismo o se la borghesia imperialista ristabiliva il suo potere.
Date le circostanze, l'unica soluzione politica su cui la borghesia
imperialista poteva contare per conservare in Italia il suo ordinamento
sociale era un regime clericale, con alla testa il Vaticano e la sua
Chiesa sostenuti dall'imperialismo americano. All'inizio degli anni '20
la borghesia italiana (con la Monarchia e il Vaticano) non aveva trovato
altro modo di venire a capo della ribellione degli operai, dei contadini
e degli artigiani, che affidare il potere al fascismo e al suo
caporione, Benito Mussolini. Coerentemente con la sua natura di
mobilitazione reazionaria delle masse popolari e di dittatura
terroristica della borghesia imperialista, il fascismo coinvolse e non
poteva che coinvolgere l'Italia in una successione di guerre e infine
nella Seconda Guerra Mondiale: venne quindi sconfitto e travolto. La
borghesia risultò fortemente sminuita nel suo potere e nella sua
influenza sulle masse popolari, la Monarchia fu addirittura rovesciata e
anche il Vaticano si trovò in difficoltà per le sua collusione col
fascismo. Il ruolo che nel nostro paese aveva avuto il movimento
comunista mobilitando la classe operaia, i contadini, gli artigiani e
gli intellettuali rivoluzionari nella Resistenza, unito al ruolo svolto
a livello internazionale dall'Unione Sovietica e dal movimento comunista
nella sconfitta del nazifascismo, portarono il movimento comunista al
punto più alto di forza e di potere che abbia mai raggiunto nel nostro
paese. Il PCI divenne l'effettivo Stato Maggiore della classe operaia
nella sua lotta contro la borghesia. (5)

Perché la classe operaia non riuscì a instaurare il socialismo, ma anzi
seguì una strada che da quel punto più alto la portò nel giro di alcuni
anni alla dispersione della forza che aveva accumulato, "a perdere tutto
e ad aver perso tutto, a trovarci in un regime diverso, di tipo
reazionario, senza neppure aver dato battaglia" come giustamente paventa
Pietro Secchia a conclusione del suo rapporto?

Nella propaganda anticomunista, in particolare tra i suoi esponenti
trotzkisti o influenzati dai trotzkisti, il problema viene risolto
sbrigativamente. Essi tirano in ballo "l'opera del diavolo": Stalin non
voleva la rivoluzione socialista in Italia, con gli Accordi di Yalta
aveva concesso l'Italia agli imperialisti anglosassoni e aveva ordinato
al PCI di non fare la rivoluzione. Gli artefici di questa propaganda
nascondono o ignorano persino l'evidenza: ad esempio le aspre critiche
che la delegazione del Partito comunista dell'Unione Sovietica,
capeggiata da Zdanov, fece al PCI e al PCF alla conferenza di fondazione
del Cominform (22-27 settembre 1947), proprio perché i due partiti si
erano lasciati estromettere dal governo dei rispettivi paesi.
Giustamente il PCUS riteneva infatti che non fosse il caso di esportare
la rivoluzione socialista in Italia, in Francia e in altri paesi
europei. Per di più essi erano in una posizione sostanzialmente diversa,
per vari fattori, dai paesi confinanti con l'Unione Sovietica e liberati
dal nazismo con il contributo principale, determinante o comunque
importante dall'Armata Rossa. Il PCUS si limitava quindi ad aiutare i
rispettivi partiti comunisti con consigli, con lo scambio di esperienza
e in una certa misura anche finanziariamente. La rivoluzione dovevano
condurla i movimenti comunisti dei rispettivi paesi, basandosi ognuno
principalmente sulle risorse del suo paese e sulla sua capacità di
elaborare una linea giusta e di attuarla. (6)

In realtà nel PCI vi era una forte corrente che _non_ aveva fiducia
nelle capacità rivoluzionarie della classe operaia e delle masse
popolari italiane. Essa era stata denunciata da Gramsci già nel 1926.
Secondo questa corrente non era possibile instaurare in Italia il
socialismo. Di questa corrente Palmiro Togliatti (1893-1964) era
diventato il più autorevole portavoce. Egli aveva partecipato come
rappresentante dell'Internazionale Comunista alla guerra di Spagna e,
come altri, aveva tirato dalla sconfitta una lezione sbagliata. Come
altri, non aveva individuato i limiti della linea strategica seguita dal
Partito comunista spagnolo, che avevano condotto la rivoluzione spagnola
alla sconfitta. (7) Aveva tratto da quella sconfitta la conclusione che
l'arretratezza di una parte delle masse popolari e l'estremismo di
un'altra parte si combinavano fino a rendere impossibile quella
elasticità tattica che è indispensabile per il successo di una guerra
rivoluzionaria. Togliatti trasponeva la lezione sbagliata che aveva
tratto dalla sconfitta spagnola nella direzione del movimento comunista
italiano. Questa corrente concepiva il ruolo del PCI nella lotta
antifascista in Italia come quello di "ala sinistra della borghesia
antifascista": proprio quel ruolo dal quale le Tesi di Lione del PCI
(1926) avevano espressamente messo in guardia il Partito. (8) La
"democrazia progressiva" per questa corrente non era una tappa verso
l'instaurazione del socialismo. Era il punto d'arrivo della lotta
antifascista. Lì si doveva arrivare e non più avanti, come se fosse
possibile, per un movimento rivoluzionario, stare fermo sulla cresta
dell'onda. Era l'interpretazione di destra della linea del Fronte
Popolare Antifascista definita dal VII Congresso dell'Internazionale
Comunista (1935). Una interpretazione che era sostenuta anche dalla
destra del PCF, di cui Maurice Thorez (1900-1964) era il più autorevole
esponente. (9)

L'ala destra del PCI era contraria all'instaurazione del socialismo in
Italia, non credeva che fosse possibile. Su questa base raggruppava
attorno a sé tutti gli opportunisti e i filoborghesi presenti nel PCI e
nel movimento comunista e si saldava con la borghesia. Questo la rendeva
forte. Cosa pensava della situazione l'ala sinistra del PCI? Quale era
la sua analisi della situazione? Quale linea patrocinava? Che grado di
autonomia aveva dall'ala destra del PCI e quindi dalla borghesia?

Ce lo illustra, in maniera precisa e affidabile, il rapporto che Pietro
Secchia (1903-1973) tenne il 16 dicembre alla Sezione Esteri del CC del
Partito comunista dell'Unione Sovietica. (10) Pietro Secchia era stato
uno dei due massimi dirigenti comunisti della Resistenza (l'altro era
Luigi Longo) ed era ed è stato riconosciuto da tutto il movimento
marxista-leninista italiano come l'esponente di spicco dell'ala sinistra
del PCI. Tre mesi dopo la suaccennata conferenza del Cominform, Secchia
era a Mosca ed ebbe colloqui con Stalin alla presenza di Zdanov,
Malenkov, Molotov e Beria, a proposito della situazione in Italia e
della linea che il PCI stava seguendo. Dopo questi colloqui tenne il suo
rapporto alla Sezione Esteri. In questa relazione egli fece il bilancio
dell'attività svolta dal PCI dopo le insurrezioni dell'aprile del 1945
fino a tutto il 1947. Seguiamo il consiglio della compagna Tonia N.
(_Bisogna rielaborare l'esperienza del passato ed elaborare le
esperienze presenti alla luce della teoria della guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata_ in _La Voce_ n. 18). Leggiamo il
rapporto di Secchia alla luce di quella teoria e della contrapposizione
tra strategia della insurrezione e strategia della GPRdiLD. Questo
rapporto non lascia dubbi sul motivo per cui la sinistra fu incapace di
far valere una linea rivoluzionaria nel PCI e la destra ebbe via libera:
la sinistra non sapeva che strada seguire.

In sintesi Secchia si rendeva ben conto che il PCI con la linea che
stava seguendo dopo la fine della Resistenza aveva imboccato un vicolo
cieco. Non prendendo la linea di mobilitare le masse popolari, che già
aveva mobilitato con successo a fare la guerra contro i fascisti e i
nazisti, perché prendessero nelle loro mani la ricostruzione del paese e
la facessero alla loro maniera e accettando al contrario di fare del
terreno governativo parlamentare il terreno principale di scontro tra le
forze democratiche e le forze reazionarie, il movimento comunista era in
balia dei ricatti (scissione sindacale e delle altre organizzazioni di
massa) e delle minacce (guerra civile e intervento straniero) delle
forze reazionarie raggruppate nella DC e attorno ad essa. Le forze
reazionarie avevano libertà d'azione e l'iniziativa. Il movimento
comunista era costretto a stare al loro gioco: a rispondere alle loro
mosse, a premere, a chiedere, a rivendicare, ecc. Non aveva più
l'iniziativa in mano, come l'aveva avuta nella Resistenza. Anziché
costringere con le sue iniziative le forze reazionarie a corrergli
appresso, a partire dall'autunno 1945 il PCI era costretto a correre lui
dietro le iniziative delle forze reazionarie. Costretto in questa
posizione, il movimento comunista perdeva irrimediabilmente forza e si
disgregava. Secchia si rendeva conto anche che le forze reazionarie
avevano paura del movimento delle masse popolari, della mobilitazione
delle masse popolari. Ma non proponeva una linea per trarre profitto
dalla debolezza delle forze reazionarie di fronte alla mobilitazione
delle masse popolari. Conosceva le sofferenze atroci che la borghesia
infliggeva in quegli anni alle masse popolari sabotando la ricostruzione
e le sofferenze peggiori che preparava. Ma non aveva una linea che
conducesse le masse popolari a porvi direttamente rimedio, prendendo
direttamente in mano la ricostruzione del paese e facendola alla loro
maniera. Sapeva che nella DC vi erano forze popolari su cui il PCI
avrebbe potuto far leva e che l'eventuale aperto intervento militare
americano in aiuto del Vaticano, ammesso che la situazione politica
interna degli USA e le relazioni internazionali non dissuadessero il
Presidente USA (Truman) dal ricorrervi, in Italia avrebbe spostato altre
forze nazionaliste dalla parte del movimento comunista. Secchia dice
anche di essere convinto che se le forze reazionarie fossero ricorse
alla guerra civile, sarebbero state sconfitte: quindi la loro minaccia
era un bluff. Ma sapeva anche che se il PCI avesse chiamato
all'insurrezione per impadronirsi del potere, probabilmente sarebbe
stato sconfitto: non era in grado di mobilitare il centro delle masse
popolari e le forze intermedie neanche per uno sciopero di protesta
contro l'esclusione del PCI e del PSI dal governo attuata da De Gasperi
nel maggio 1947, tanto meno lo sarebbe stato di mobilitarle per
un'insurrezione. Ma non osa proporre di attirare le forze reazionarie
nella trappola: o subire l'iniziativa delle masse popolari che
ricostruiscono il paese alla loro maniera e perdere tutto o contrapporsi
frontalmente ad esse , farla davvero la guerra civile e rischiare di
perdere tutto. Chi aveva paura della guerra civile: le masse popolari o
la borghesia e la destra del PCI? Chi aveva da perdere nella guerra
civile? La classe operaia o la borghesia? Secchia si rendeva conto che
le forze reazionarie avevano una linea per ristabilire gradualmente
(perché non potevano affrontare di petto il movimento comunista), passo
dopo passo, il loro potere, consolidarlo e indebolire il movimento
comunista e le forze democratiche ("tattica del carciofo", la chiama).
Il PCI (che anche lui non può affrontare di petto, direttamente, la
borghesia chiamando all'insurrezione) invece non aveva una linea per
rafforzare gradualmente le forze rivoluzionarie e democratiche e
indebolire le forze reazionarie. Accettava il dilemma posto dalle forze
reazionarie e dalla destra del PCI stesso: o insurrezione o niente
(salvo agitarsi a vuoto con dichiarazioni, comizi, scioperi
dimostrativi). Secchia dice: no all'insurrezione ma facciamo qualcosa!
Cosa? Lotte più dure. Non si rende conto che si tratta di scontro tra
due linee antagoniste nel partito comunista. Non formula neanche
chiaramente l'altra linea. A fine 1947 egli dice che le forze del
movimento comunista sono diminuite a partire dall'ottobre 1945 e
continuano e continueranno a diminuire. Non vede e tanto meno propone
via d'uscita per invertire il corso. Giustamente non ha alcuna fiducia
nelle elezioni che si terranno nella primavera del 1948 (18 aprile
1948).

Togliatti, forte del sostegno della borghesia, è più "audace", mente
spudoratamente contro ogni evidenza. Nel luglio 1947 proclama che le
forze del movimento comunista sono aumentate e sono in crescita.
Proclama addirittura che l'esclusione dal governo, proprio perché
accettata dal PCI e dal PSI senza chiamare all'insurrezione, ha
rafforzato il movimento comunista. Incita ad avere fiducia nelle
elezioni che si terranno nella primavera del 1948. (pag. 71-72, pag.
73-74) Secchia non avanza alcuna linea realista per invertire il corso
delle cose. Accetta il ricatto di Togliatti: o ricorrere
all'insurrezione o accettare il terreno governativo parlamentare come
terreno principale di lotta. Accetta questo ricatto e quindi opta anche
lui per il terreno governativo parlamentare come terreno principale di
scontro, solo che lui chiede lotte più dure. Alla fin fine nel suo
rapporto si riduce a dire che occorreva uno sciopero _di protesta_ di
ventiquattro o di quarantotto ore! (pag. 74)

Non vede assolutamente che la via d'uscita da quel dilemma ricattatorio
posto dalla destra del PCI e dalla borghesia al movimento comunista (se
nel 1947 ne esisteva ancora una, ma certo anche a parere di Secchia
quella via esisteva nel 1945 ed avrebbe evitato al movimento comunista
di cacciarsi nel vicolo cieco in cui gli appare trovarsi nel 1947) è
usare l'ascendente che il PCI ha sulle masse popolari, mobilitarle a
prendere direttamente l'iniziativa nella ricostruzione del paese,
cacciare i reazionari che la sabotano e la saboteranno finché non
avranno consolidato il loro potere e potranno farla alla loro maniera
(con lacrime e sangue per le masse, con l'emigrazione e la
disoccupazione), (11) tirare la corda su questa via fino a portare il
Vaticano, l'imperialismo USA e la borghesia imperialista o a rassegnarsi
all'inevitabile (si saprà più tardi che il Vaticano aveva predisposto
piani per sgomberare il Papa e la sua corte da Roma e farli riparare
all'estero) oppure a scatenare veramente la guerra civile che
minacciavano bluffando perché contavano sulla destra interna al PCI
perché il bluff funzionasse, era un aiuto che essi davano alla destra
del PCI per mettere a tacere il malcontento della sinistra.

Non ci è dato sapere cosa abbiano pensato i comunisti sovietici al
sentire le proposte dell'esponente principale della sinistra del PCI. A
trent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre, molti di loro avevano
partecipato alla lotta contro lo zarismo, all'Ottobre, alla guerra
civile (1918-1920) contro le armate bianche e i corpi di spedizione
dell'Intesa e avevano appena concluso la vittoriosa guerra di quattro
anni contro le orde naziste!

Vediamo ora, nel rapporto di Secchia, i passaggi che meglio chiariscono
il nostro tema e confermano la sintesi che ho esposto.

Secchia riconosce che il PCI nei mesi immediatamente successivi alle
vittoriose insurrezioni dell'aprile '45 era "sulla cresta dell'onda". La
"fase più alta dell'ondata rivoluzionaria, dell'ascesa del movimento
democratico, (che) va, a parer mio, dall'aprile all'ottobre 1945". (pag.
75) Il PCI era non più il potenziale, l'aspirante Stato Maggiore. Oramai
era l'effettivo Stato Maggiore della classe operaia e delle masse
popolari. Le sue decisioni orientavano milioni di uomini e di donne e
decidevano della loro attività. "Al momento dell'insurrezione nazionale
del nord Italia avevamo con noi la maggioranza della popolazione
italiana, quanto meno la maggioranza della popolazione attiva, ed
esercitavamo una grande influenza anche su larghi strati della
popolazione non attiva. Per conquistare questa maggioranza e i successi
politici già accennati, noi avevamo lavorato sulla base della formula
politica dei Comitati di Liberazione Nazionale, i quali erano
l'organizzazione di un blocco di forze nazionali costituitosi con
l'obiettivo di liberare il paese, abbattere il fascismo, distruggere le
sue tracce ed opporre una unità del popolo italiano anche alle forze
degli "alleati liberatori" in seguito trasformatisi in occupanti
anglo-americani". (pag. 70) "Immediatamente dopo la guerra, come sapete,
si era creata in Europa e anche in alcuni paesi al di fuori dell'Europa
una situazione particolare caratterizzata da una spinta popolare, da una
spinta diretta e organizzata da forze politiche democratiche di
avanguardia, la quale tendeva a provocare delle profonde trasformazioni
nella struttura economica, politica e sociale dei paesi europei, allo
scopo di dirigere la ricostruzione economica e politica seguendo una
linea di democrazia conseguente e progressiva. Questa spinta ha avuto
luogo sotto il segno dell'unità antifascista. Le trasformazioni che
dovevano essere compiute erano di natura politica ed economica. Venivano
aperte le vie del potere ai partiti più avanzati della classe operaia.
Questi partiti e le forze sociali da essi rappresentate partecipavano al
potere politico con un programma determinato che si riassumeva nella
lotta per distruggere i residui del fascismo e sul terreno
economico-sociale nella lotta per realizzare quelle riforme le quali
dovevano impedire una rinascita fascista ed imperialista. Si trattava di
lottare essenzialmente per realizzare la riforma agraria in primo luogo,
e in secondo luogo di una lotta contro i gruppi capitalisti
monopolistici". (pag. 65-66)

Da notare che la concezione che guidava il partito e che la sinistra
condivideva consisteva quindi nel partecipare al governo del paese
assieme alle forze della reazione e nel governo, sul terreno governativo
parlamentare, lottare perché il governo facesse questo e quello, indurre
il governo a fare questo e quello a favore delle masse popolari. Secchia
non mette al centro del suo ragionamento - e non c'è motivo di pensare
che mentisse data la sede in cui parlava - il fatto che sotto
l'apparenza di un unico potere (lo Stato il cui governo era insediato a
Roma) in realtà in Italia vi erano due poteri contrapposti, i poteri di
due classi antagoniste in gara tra loro per affermarsi come unico
potere. Quindi non enuncia neanche _chiaramente_ la linea che il PCI
doveva seguire per far prevalere il potere della classe operaia. È
evidente che tale linea consisteva nell'usare il ruolo di Stato Maggiore
della classe operaia e delle masse popolari che il PCI aveva
conquistato. Nel 1943, in condizioni ben più difficili e senza avere
ancora il ruolo di effettivo Stato Maggiore presso masse popolari così
larghe come l'aveva nell'estate 1945, il PCI aveva mobilitato le masse
popolari a fare la guerra civile. Grazie a questo ruolo, si trattava ora
di mobilitare le masse popolari a fare direttamente la ricostruzione del
paese. Quindi di mobilitare le masse popolari, che già seguivano il PCI
o erano largamente influenzate da esso: i contadini a fare la riforma
agraria (cioè a occupare e coltivare le terre e cacciare gli agrari);
gli operai e gli impiegati a prendere in mano e rimettere in funzione le
fabbriche, le banche, i trasporti e le grandi aziende commerciali e
cacciare o far lavorare sotto adeguato controllo i tecnici e dirigenti
ostili; i senza casa e quelli che abitavano in case malsane (il cui
numero i bombardamenti angloamericani e la guerra in generale avevano
moltiplicato) a occupare le case dei ricchi e gli edifici del clero
(palazzi, scuole, conventi, convitti, ecc.). Si trattava insomma di
mobilitare e organizzare le masse a prendere direttamente in mano la
ricostruzione del paese e su questa base consolidare e allargare
l'alleanza, l'egemonia, la direzione sulle masse intermedie
(commercianti, piccoli industriali, intellettuali e professionisti) e
con questa iniziativa mettere le forze reazionarie sulla difensiva nei
confronti delle masse popolari, obbligarle o a contrapporre il loro
sabotaggio della ricostruzione all'iniziativa delle masse popolari o
rassegnarsi all'ineluttabile (in realtà a dividersi tra le due vie). È
principio noto di ogni rivoluzione proletaria che tutti gli strati delle
masse popolari, ma in particolare gli strati più arretrati, devono avere
subito, al più presto, almeno qualcosa di quello a cui aspirano
fortemente, che è giusto che abbiano. In questo modo difenderanno con
maggiore accanimento ed eroismo la rivoluzione dalle forze
controrivoluzionarie che gli toglierebbero quello che finalmente hanno.
Il primo successo pratico, comprensibile anche a loro, della
rivoluzione, sveglia ed eleva la loro coscienza più di quanto farebbero
molti discorsi. Questa linea Secchia non la ignora. Anzi riconosce che
solo queste trasformazioni della struttura economico-politica del paese
avrebbe reso irreversibile il successo che il movimento comunista aveva
raggiunto con la lunga resistenza al fascismo (1926-1943) e con la
Resistenza (1943-1945). (fine pag. 65, pag. 69-70) Ma Secchia trascura
il fatto fondamentale che questa linea è alternativa a quella (che sa
essere fallimentare) che Togliatti ha impresso al PCI. Trascura il fatto
che per vincere occorre che l'iniziativa diretta delle masse popolari
nella ricostruzione sia l'aspetto principale: spingere gli organismi
statali ("unitari") ai vari livelli (visto che nelle condizioni
transitorie del momento si doveva convivere nel quadro di un unico
Stato) ad assecondare l'opera delle masse popolari era utile ed efficace
solo come aspetto ausiliario e complementare di questa linea. Ciò
avrebbe isolato le forze reazionarie e alla lunga avrebbe diviso in due
questi organismi "unitari": alcuni si sarebbero trasformati
definitivamente in organismi popolari diretti dal movimento comunista,
altri si sarebbero schierati apertamente contro le masse popolari.

Come è noto, dopo le insurrezioni d'aprile il PCI aveva guidato le altre
forze del CLN a costituire il governo Parri: questo era un momentaneo
compromesso tra le forze democratiche e le forze reazionarie. Ferruccio
Parri era il capo del Partito d'Azione. Il Partito d'Azione non era e
non poteva essere un partito di massa. Esso (Parri, Riccardo Lombardi,
Mattioli, Ugo La Malfa e tanti altri che ebbero poi un ruolo importante
nella storia successiva come esponenti della borghesia mai completamente
integrati nel regime DC ma come suoi associati laici) rappresentava
quella parte della borghesia italiana che subiva l'egemonia del
movimento comunista, che era trascinata dal PCI quando il PCI sulla
cresta dell'onda o che sperava di riuscire, servendosi del movimento
comunista, a riprendere direttamente il governo del paese facendo a meno
della direzione del Vaticano e della tutela dell'imperialismo USA.
Insomma, quella parte della borghesia che comunque non intendeva
rifugiarsi sotto il mantello del Vaticano e degli imperialisti USA o non
aveva fiducia che quel mantello fosse una protezione efficace. Di essa
altrove Secchia dice: "Dobbiamo onestamente riconoscere, lo abbiamo
detto più volte, che con gli amici del Partito d'Azione la nostra
collaborazione, nel corso della Resistenza, fu sempre assai stretta; che
essi furono sempre, con noi, i sostenitori della lotta e delle posizioni
più avanzate" (nota 5 a pag. 38 della stessa raccolta di Marcello
Graziosi). Giustamente Secchia riconosce che il governo Parri nasce dal
fatto che nel 1945 "le forze reazionarie (…) non erano (state) in grado
di opporre una efficace resistenza alla partecipazione al potere dei
partiti della classe operaia e dei lavoratori". (pag. 66) Secchia però
né riconosce il carattere specifico di questa ala della borghesia, né fa
valere il rapporto di unità e lotta che il movimento comunista deve
tenere con le forze intermedie.

Sul terreno strettamente politico, la concezione che guidava il partito,
condivisa dalla sinistra, portò a lasciar cadere i CLN, benché questi
fossero stati "per un certo tempo, soprattutto nel nord dell'Italia, una
forza democratica attraverso la quale le masse lavoratrici partecipavano
alla soluzione dei problemi politici ed economici del paese, iniziavano
la loro opera di partecipazione alla direzione dello Stato". (pag. 70) E
a posteriori Secchia riconosce che "forse avremmo dovuto batterci con
maggior forza per tenere in vita i CLN quali organismi democratici che
facilitavano la partecipazione delle masse popolari alla vita politica e
alla direzione del paese". (pag. 72-73).

In realtà il PCI non si oppose efficacemente neanche all'abbattimento
del governo Parri nell'ottobre del 1945 da parte delle forze
reazionarie. Il governo Parri era certamente un governo borghese, ma per
i motivi già detti era un tipico governo di transizione, provvisorio. La
sua difesa dall'attacco delle forze reazionarie avrebbe costituito per
il movimento comunista un eccellente ulteriore (oltre la mobilitazione
per la ricostruzione) motivo di larga mobilitazione delle masse popolari
contro le forze reazionarie che si sarebbe estesa oltre la cerchia già
ampia delle masse popolari che seguivano il PCI e avrebbe isolato il
nemico principale: il Vaticano appoggiato dall'imperialismo USA e quella
parte (maggioritaria) della borghesia e degli agrari che si aggrappava
ad essi come unica ancora di salvezza dell'ordinamento sociale borghese.
Le vere forze reazionarie, quelle che avevano la capacità di mettersi
alla testa della restaurazione e di portarla alla vittoria, quindi il
nemico principale, erano queste. In qualche misura Secchia le individua:
il Vaticano, l'imperialismo USA e, aggiunge, il grande padronato. (pag.
79) Ma non fa distinzione tra borghesia di destra (quella decisa a
mettersi sotto il mantello del Vaticano e dell'imperialismo USA) e
borghesia di sinistra (quella influenzata dal movimento comunista) che
la realtà stessa poneva in evidenza. Né valorizza il dato storico della
difficoltà della borghesia italiana nel suo complesso ad assumere
direttamente la direzione politica del paese. (12) Mettere il grande
padronato sullo stesso piano del Vaticano e dell'imperialismo USA era un
altro errore di analisi: era non distinguere tra il naufrago che si
attacca al salvatore e il salvatore, non sfruttare al massimo le
divisioni in campo nemico.

Nel 1945 "non abbiamo risposto con un movimento di massa alla manovra
dei liberali concordata con i dirigenti della DC per mettere in crisi il
governo. Il rovesciamento del governo presieduto da Ferruccio Parri
segnò l'inizio della controffensiva da parte delle forze conservatrici e
reazionarie che si proponevano di impedire lo sviluppo di un regime
democratico, che avevano per obiettivo la restaurazione del regime
capitalista". (pag. 73) Ma nel 1947 la forza dei fatti e l'onestà
intellettuale del sincero comunista costringono Secchia a riconoscere
che una risposta efficace non poteva consistere in un movimento di
protesta, in manifestazioni e dichiarazioni più forti. "Le proteste a
mezzo della stampa e dei comizi servono a poco. Avevamo già avuto
l'esempio dell'ottobre 1945, all'epoca del rovesciamento del governo
Parri. I nostri avversari [in realtà il centro: tra le forze politiche
la parte oscillante e incerta: socialisti, azionisti, ecc. che il PCI
con la sua iniziativa aveva trascinato alla guerra contro i
nazifascisti; nelle masse popolari, la parte più benestante]
constatarono allora che le manifestazioni delle masse a base di grandi
comizi non portavano a nulla di positivo e si convinsero che noi non
potevamo andare più avanti, non eravamo in grado di assestare dei colpi
più forti e realizzarono una sterzata a destra. E da allora,
dall'ottobre 1945, a mio parere, che comincia il declino del prestigio
dei partiti popolari e l'afflusso verso la DC". (pag. 75) D'altra parte,
"se noi non riusciremo ad andare avanti andremo indietro, perché sulla
cresta dell'onda non ci si ferma. E la cresta dell'onda secondo me è già
passata, l'abbiamo toccata nell'ottobre 1945, poi è cominciato il
declino". (pag. 84/85)

Abbattuto il governo Parri in ottobre, il PCI era entrato nel governo De
Gasperi che si insediò all'inizio di dicembre 1945. La differenza è
sostanziale. Il governo De Gasperi non è più un governo di transizione,
provvisorio. Con la DC prende in mano il governo l'unica forza che
poteva prendere e tenere il potere preservando l'ordinamento sociale
borghese: il Vaticano con la sua Chiesa sostenuti dall'imperialismo
americano. (pag. 79) A un governo per forza di cose transitorio,
provvisorio, subentra un governo in mano a uno dei due reali contendenti
per il potere, il nemico principale del movimento comunista in campo
politico, perché l'unico, oltre al PCI, che aveva una sua egemonia su
una parte importante delle masse popolari.

Quanto alla DC, Secchia riconosce che "è un partito complesso, esso
raggruppa uomini di diversi ceti sociali, capitalisti e operai, grossi
agrari e contadini poveri, possidenti e ceti medi professionali. Vi sono
anche nelle sue file operai, contadini, lavoratori ed esercita la sua
influenza su larghe masse di lavoratori, anche se non iscritti al
partito". (pag. 77) "Ma da chi è diretto questo partito? È diretto dal
Vaticano e dalle forze capitaliste [e qui siamo ancora alla confusione
di cui sopra, tra naufrago e salvatore], è lo strumento delle alte
gerarchie ecclesiastiche, di quelle gerarchie che hanno preparato
l'avvento del fascismo; è diretto pure dagli attuali circoli dirigenti
reazionari degli Stati Uniti. Tale partito non offre alcuna garanzia di
condurre una politica democratica. Questo è il partito di cui la
borghesia italiana aveva bisogno per condurre l'azione preliminare
necessaria al ritorno a un regime reazionario. Nella DC e attorno alla
DC si sta realizzando ancora una volta quell'unità delle forze
capitalistiche ed agrarie che vogliono mantenere e rafforzare il proprio
dominio nel paese. Gli industriali italiani sussidiano e appoggiano in
primo luogo tale partito. Costa, il presidente dell'Associazione degli
industriali, è membro autorevole dell'Azione cattolica e impone una
taglia agli industriali italiani per poter finanziare il partito e i
giornali della DC". (pag. 78)

Anche qui è chiaro il travisamento della società italiana. Secondo
Secchia è il grande padronato a usare la Chiesa e il Vaticano per
riprendere o rafforzare il suo potere politico. In realtà il grande
padronato si aggrappa al Vaticano e agli imperialisti americani per non
andare a fondo, senza alcuna speranza e velleità di restare padrone in
casa propria, di riconquistare autonomia politica, una piena sovranità.
L'unico regime che nelle circostanze sorte in Italia con la sconfitta
del fascismo poteva assicurare la sopravvivenza della borghesia
imperialista italiana, preservare l'ordinamento sociale borghese, era il
regime clericale, il nuovo Stato Pontificio. Il Papa e la sua Chiesa
avrebbero lasciato ampi margini di libertà ai loro "laici" della DC a
condizione che il governo garantisse la stabilità del loro potere
politico e la conservazione dell'ordine. Il Papa e la sua Chiesa si
sarebbero accontentati di succhiare le risorse necessarie alla loro
opulenza e magnificenza e avrebbero imposto l'osservanza delle
condizioni e la libertà d'azione consone allo svolgimento della loro
"missione divina in terra". All'ombra di questo nuovo regime la
borghesia avrebbe potuto fare i suoi affari. (13) Tuttavia quello che
più stride nel discorso di Secchia è l'affermazione a proposito della DC
che "tale partito non offre alcuna garanzia di condurre una politica
democratica". Altro che non dà garanzia di fare una politica
democratica! Dà garanzia di instaurare un regime clericale. Lo avrebbe
fatto certamente, a meno che il PCI fosse riuscito a far esplodere
l'interna sua reale contraddizione che Secchia indica. Era la stessa che
aveva animato il Partito Popolare di don Luigi Sturzo prima del
fascismo, la cui interna contraddizione Gramsci aveva già analizzato e
mostrato: la combinazione di forze popolari e forze reazionarie diretta
da queste ultime che però devono riuscire a mantenere la loro egemonia
sulle prime che oramai avanzano loro rivendicazioni. Quindi non più la
vecchia combinazione del Risorgimento. (14) In questa clero e nobili
antiunitari avevano sobillato contadini e donne arretrati contro la
borghesia unitaria che aveva il potere. Ora invece si tratta di una
combinazione moderna in cui il clero deve dirigere a compiere
un'operazione reazionaria una massa in qualche misura risvegliata
all'attività politica e in qualche misura quindi autonoma e protesa a
fare i suoi interessi. Deve dirigerla non, come nel Risorgimento e
subito dopo, a fare la fronda al potere esistente, ma a sbarrare il
passo al potere montante, al movimento comunista che però impersona gli
interessi della massa che deve contribuire a sbarrargli il passo.
Infatti la DC promette alle masse popolari non il paradiso dell'aldilà,
ma di realizzare meglio dei comunisti quello che le masse vogliono e che
i comunisti sostengono. Su questa base le mobilita a seguirla. Insomma
un'operazione delicata e arrischiata, che segnerà la storia del regime
clericale e che offriva al movimento comunista ampi margini di manovra
per rivoltare l'operazione contro i suoi promotori e beneficiari.

Non a caso poco più avanti Secchia si smentisce: "Non dobbiamo
illuderci, i dirigenti della grande borghesia italiana e della DC con De
Gasperi alla testa impiegheranno tutti i mezzi per colpire il nostro
partito e le forze democratiche, per portare la divisione nel movimento
operaio e nel movimento socialista. Possiamo fidare soltanto sullo
sviluppo e sulle progressive vittorie elettorali? Ma avendo il governo
nelle loro mani le elezioni ce le prepareranno sempre in modo tale da
decurtare i nostri successi e da impedirci successi decisivi". (pag.
83). Perché due tesi così contrastanti su un tema di decisiva importanza
politica? Una debolezza di analisi che denota e genera la mancanza di
una strategia. Chi ha una strategia, chi lotta per attuare una
strategia, deve per forza di cose definire in ogni momento quale è
l'aspetto principale di ogni soggetto in lizza, verso chi deve dirigere
il colpo principale, chi deve neutralizzare, chi deve farsi alleato. A
chi ha una strategia, è possibile individuare fase dopo fase il nemico
principale e collocare rispetto ad esso e a sé le varie forze che sono
in campo.

L'analisi approssimativa della natura della DC fa sfuggire a Secchia la
possibilità di azione del PCI sulla DC. Questa possibilità non sta
principalmente nei buoni rapporti con alcuni dirigenti DC, nella loro
buona disposizione verso il PCI, nella loro buona volontà, nella loro
sincerità, nella loro coerenza: (pag. 78-79) tutte cose di cui individuo
per individuo non si è mai certi e non è comunque detto che non si
capovolgano nel corso degli eventi. Con la Resistenza il PCI era
riuscito a costringere la DC a scendere sul terreno della guerra civile
contro il nazifascismo. Secchia riconosce che tra il 1943 e il 1945
tutte le forze borghesi erano state costrette a seguire il PCI sulla
strada che il PCI aveva indicato e aperto. Alcune lo avevano seguito di
malavoglia, trascinandosi con fatica, cercando sempre di frenare, ma
avevano dovuto seguire, perché era l'unica via possibile per tutte le
forze che volevano avere voce in capitolo nel dopoguerra. "In
particolare il Partito democristiano, … in un secondo tempo si rese
conto che la sua fortuna non poteva non dipendere dal contributo attivo
alla lotta (Raffaele Cadorna, _La riscossa,_ Milano-Roma, Rizzoli, 1948
citato da Secchia in nota 2 a pag. 35 della raccolta a cura di M.
Graziosi). Ora per riuscire a trascinare la DC dove i suoi dirigenti
decisivi (il Vaticano e la sua Chiesa) non vogliono andare e dove
persino alcuni dirigenti DC invece vogliono o simulano di volere andare,
e quindi riuscire prima o poi a far esplodere la contraddizione sua
interna, il PCI avrebbe dovuto far leva sul fatto che nelle file della
DC ci sono "operai, contadini, lavoratori ed esercita la sua influenza
su larghe masse di lavoratori, anche se non iscritti al partito". (pag.
77) Ciò costituiva un ottima arma per il PCI, per "dirigere" la DC, per
obbligare De Gasperi e i suoi soci o ad assecondare la trasformazione
delle strutture fondamentali del paese, quelle che avrebbero reso
irreversibile il successo del movimento comunista e che sopra ho a
grandi linee indicato o a contrapporsi frontalmente e apertamente ad
esse (cosa che, giustamente dal punto di vista degli interessi che
rappresentava, De Gasperi non voleva fare). Contro il fascismo il PCI
aveva fatto leva anche sui lavoratori riuniti dei sindacati fascisti e
sui giovani universitari organizzati dal fascismo. Quindi la linea di
massa nella pratica non era estranea al PCI, benché non ne possedesse la
teoria.

Secchia è vittima della contraddizione insita nella concezione e nella
linea del PCI. Quando analizza cosa il PCI avrebbe potuto fare contro
l'esclusione del PCI dal governo ad opera di De Gasperi, dice: "È vero
che non era facile avere un successo in tale pressione dal basso, perché
per avere successo avremmo dovuto poter mobilitare [anche] delle forze e
delle masse diverse da quelle che seguono il nostro partito. Poiché le
manifestazioni erano dirette contro i dirigenti della DC, noi avremmo
dovuto poter mobilitare anche delle forze della DC; una pressione del
genere avrebbe potuto far oscillare De Gasperi e i suoi compari che
stavano infliggendo quel duro colpo alla democrazia italiana. Ma proprio
perché era De Gasperi che prendeva l'iniziativa di escluderci dal
governo era difficile mobilitare contro tale iniziativa le masse
democristiane. Infatti, quando si era mandato a dire al congresso della
Confederazione Generale del Lavoro che si teneva a Firenze, che la
Confederazione doveva organizzare una grande manifestazione per
reclamare che i partiti dei lavoratori restassero al governo, non
riuscimmo a far accogliere la nostra proposta perché i dirigenti DC,
facenti parte degli organismi direttivi della CGdL si proclamarono
subito contrari a tale manifestazione e dissero che, se l'avessimo fatta
malgrado loro, essi sarebbero usciti immediatamente dalla CGdL, avremmo
cioè avuto la scissione sindacale". (pag. 74) Questa situazione
d'impasse rivela la contraddizione tra le due vie e tra le due linee che
oggettivamente si contrappongono nel PCI. Era impossibile al PCI far
leva sugli operai, contadini, lavoratori presenti nelle file della DC e
sui lavoratori non iscritti su cui la DC esercita la sua influenza
(costituenti quella parte delle masse popolari senza la quale la DC non
avrebbe potuto assolvere il suo compito di fulcro delle forze
reazionarie e quindi di fulcro del nuovo regime clericale) se il PCI
faceva dipendere la trasformazione delle strutture del paese dalla sua
partecipazione al governo e quindi riduceva la difesa della possibilità
di quelle trasformazioni (a cui erano interessati anche gli operai,
contadini e lavoratori su cui contava la DC) alla difesa della
permanenza del PCI nel governo o, peggio ancora, alla difesa del diritto
del PCI a governare. Il PCI non affidava infatti il successo del
movimento comunista alla mobilitazione delle masse popolari a compiere
le trasformazioni della struttura economico politica del paese che
avrebbero sgominato definitivamente le forze reazionarie e reso
irreversibile il successo del movimento comunista. Al contrario affidava
la realizzazione di quelle trasformazioni al successo del PCI sul
terreno governativo parlamentare e cercava di mobilitare le masse
popolari principalmente a sostegno del ruolo del partito nel terreno
governativo parlamentare. Anziché operare per mettere in primo piano la
contraddizione delle masse popolari con le forze reazionarie (e quindi
in primo luogo con il Vaticano e la sua Chiesa sostenuti
dall'imperialismo americano e con il grande padronato che si aggrappava
alla Chiesa per restare a galla - con la possibilità non del tutto
esclusa di indurre i quattro a dividersi), metteva in primo piano la
contraddizione tra il PCI e le forze reazionarie. Rendeva così facile il
gioco delle forze reazionarie per isolarlo. Secchia riconosce che le
forze reazionarie facevano leva sulla paura degli strati arretrati della
popolazione nei confronti dei comunisti, sulla diffidenza del centro
delle masse popolari e delle forze politiche (ivi compreso persino il
PSI) verso il PCI, (pag. 72, pag. 73) e sulla concorrenza tra partiti.
Si giovavano dei ricatti degli esponenti DC che partecipavano alla
direzione delle organizzazioni di massa e dei sindacati. (pag. 74)
Anziché essere il PCI a sfruttare la presenza di operai, contadini e
lavoratori nella DC per "dirigere" la DC, per obbligare De Gasperi e i
suoi soci ad assecondare la trasformazione delle strutture fondamentali
del paese, quelle che avrebbero reso irreversibile il successo delle
forze democratiche, sono De Gasperi e soci (quindi le forze reazionarie)
che dirigono il PCI, lo ricattano, lo obbligano a fare quello che non
vuole, o a rinunciare a fare quello che vorrebbe fare, minacciando
scissione, guerra civile e intervento straniero.

Secchia riconosce (pag. 69) che tutto (la ricostruzione, la produzione,
la ripartizione del prodotto, l'assetto del potere nel paese) dipendeva
dal governo e niente o quasi dall'iniziativa diretta delle masse
popolari sul terreno. Il partito non aveva guidato le masse popolari a
prendere in mano l'iniziativa su tutti questi terreni. Aveva demandato
tutto, e convinto gli elementi avanzati della classe operaia e delle
masse popolari a demandare tutto alle decisioni del governo. Il
movimento comunista guidava le masse popolari, che con la vittoria della
Resistenza potevano esercitare il potere, a rinunciare al potere e a
limitarsi a rivendicare dal governo, anziché guidarle a essere esse la
direzione e il governo del paese. (pag. 70, fine pag. 72) Le forze
reazionarie avevano valutato (giustamente dal punto di vista dei loro
interessi) che perfino l'Assemblea Costituente era troppo influenzata
dall'orientamento, dallo stato d'animo, dalle aspettative e dalle
richieste delle masse popolari. Il partito comunista aveva accettato che
le fosse impedito di legiferare e fosse ridotta solo ad elaborare la
Costituzione: un'accademia di belle speranze e di belle opinioni. (15)

"Un'altra deficienza dell'azione sindacale è che per molti anni gli
operai, i lavoratori ed anche molti compagni non hanno condotto delle
lotte, si sono disabituati alla lotta. Anche le conquiste che si erano
fatte dopo la liberazione sono state fatte sull'ondata del successo del
25 aprile, non sono state ottenute con grandi lotte sindacali. Scala
mobile, blocco dei licenziamenti, ecc. sono stati ottenuti in un certo
senso dall'alto. Soltanto dopo che siamo usciti dal governo si sono
combattute delle grandi lotte degli operai e dei contadini, prima
avevamo rinunciato a delle lotte sindacali che avremmo dovuto condurre.
Abbiamo ad esempio capitolato di fronte all'argomento non giusto che
veniva portato da molti in Italia che non si possono aumentare i salari
perché altrimenti aumenterebbero i prezzi." (pag. 82)

"Abbiamo ottenuto immediatamente dopo la liberazione il blocco dei
licenziamenti, che ha salvato milioni di operai dalla disoccupazione
durante il lungo periodo della riconversione industriale dall'industria
di guerra a quella di pace. Si è ottenuta la scala mobile per
l'adeguamento automatico del salario al costo della vita, conquista
molto importante, specialmente in un periodo di svalutazione della
moneta e di penuria di merci. Su iniziativa del ministro comunista
dell'Agricoltura è stata votata una legge che concede delle terre
incolte o mal coltivate ai contadini senza terra; questa legge, malgrado
il sabotaggio e la resistenza dei proprietari terrieri, è riuscita in
parecchie località dell'Italia meridionale a minare le basi dei vecchi
rapporti semi-feudali dei proprietari fondiari con i contadini. Vasti
movimenti di mezzadri hanno imposto la ripartizione dei prodotti non più
a metà, ma al sessanta per cento. Sono stati costituiti non soltanto nel
nord, ma anche in alcuni centri dell'Italia meridionale (Taranto,
Napoli), nelle più importanti aziende industriali, i consigli di
gestione, organismi che pongono il problema della partecipazione e del
controllo da parte dei lavoratori alla direzione delle aziende e della
produzione; anche se sino ad oggi questi organismi non sono ancora stati
riconosciuti legalmente. Siamo riusciti a conquistare la repubblica e
questa conquista rappresenta qualche cosa di sostanziale per il popolo
italiano, per il modo stesso come è stata conquistata e perché con
questa lotta il popolo italiano ha voluto marcare la propria volontà di
profondo rinnovamento politico, economico e sociale della società
italiana. Queste realizzazioni e le posizioni conquistate non debbono
essere sottovalutate, però è altrettanto chiaro che sinora noi non siamo
riusciti a consolidare queste posizioni e non siamo riusciti a
realizzare nessuna modificazione di struttura della società capitalista
italiana. Soltanto la realizzazione di alcune modificazioni di struttura
rappresenterebbe qualcosa di effettivamente nuovo e darebbe stabilità
alle posizioni sinora conquistate e che sono tuttora minacciate". (pag.
69)

Qual è per le masse popolari il risultato della partecipazione del PCI
al governo DC?

Sul piano economico Secchia riconosce (pag. 63-64) che tra il 1945 e il
1947, con il PCI al governo, la situazione materiale degli operai
manovali, degli operai specializzati, degli impiegati di seconda
categoria, degli impiegati di prima categoria era peggiorata. Che la
disoccupazione degli operai e dei braccianti era aumentata. (pag. 64)
Che gli agrari e i contadini ricchi stava ingrassando (pag. 63) e cosi
pure gli industriali (pag. 64). Che le misure a favore dei lavoratori
adottate dal governo erano precarie e non decisive e che già
incominciavano a essere dimenticate, lasciate cadere o abrogate. (pag.
69-70, pag. 84)

"Già dopo l'esclusione nostra e dei socialisti dal governo i grandi
industriali hanno preso l'offensiva, hanno deciso lo sblocco dei
licenziamenti, non vogliono più riconoscere i consigli di gestione. Il
governo ha scatenato la sua offensiva contro le nostre organizzazioni,
la polizia perquisisce le sedi comuniste, permette la pubblicazione di
giornali fascisti, si perseguitano e arrestano i migliori combattenti
della classe operaia". (pag. 84)

Sul piano politico tra il 1945 e il 1947, con il PCI al governo, "le
forze reazionarie del grande capitale e dell'imperialismo (…) si sono
gradatamente riorganizzate e sono andate rinsaldando sempre più il loro
potere". (pag. 66) Non è il bilancio del carattere fallimentare della
linea che il PCI ha seguito sotto la direzione di Togliatti? Non spiega
questo bilancio esaurientemente perché il prestigio e la forza (la
capacità di direzione e di mobilitazione, l'egemonia) del PCI sono in
calo?

Come hanno manovrato le forze reazionarie per ristabilire e rinsaldare
il loro potere? Che linea avevano seguito le forze reazionarie per
rafforzarsi?

"Da una parte hanno cercato con ogni mezzo di provocare ad ogni
occasione una rottura del fronte democratico nazionale e di spingere il
paese verso la guerra civile. D'altra parte hanno cercato di impedire
che i governi che si fondavano sul blocco di forze democratiche
potessero sviluppare una politica anticapitalista. Ogni volta che noi
comunisti assieme ai socialisti e alle altre forze democratiche
cercavamo di strappare [al governo] determinate misure di ordine
economico e politico che avrebbero fatto progredire la democrazia,
immediatamente le forze conservatrici insorgevano e ci si minacciava con
la rottura della situazione, che avrebbe provocato la guerra civile,
l'intervento straniero, ecc. Le forze democratiche furono perciò
costrette a segnare il passo. D'altra parte con la stessa minaccia ci si
impediva l'avanzata e la conquista di solide posizioni sul terreno
politico. Forse in taluni casi ci siamo lasciati dominare troppo da
queste minacce e dal pericolo della rottura, della guerra [civile]. La
lotta di classe contro i lavoratori e le forze democratiche i
capitalisti l'hanno condotta in forme e in direzioni diverse che non
sono soltanto la resistenza alle rivendicazioni degli operai e dei
contadini. Su questo terreno, anzi, data la possanza dell'organizzazione
sindacale, la sua compattezza, i capitalisti non si trovano sulle
posizioni più vantaggiose per condurre la lotta. Ma essi hanno scelto un
altro terreno: quello del sabotaggio concreto di ogni opera di
ricostruzione economica. Essi si sono rifiutati di rinunciare ad una
parte, sia pure piccola, dei loro profitti a beneficio della
ricostruzione del paese (...). Attraverso il sabotaggio economico e il
gioco dei prezzi, gli industriali sono sempre riusciti ad annullare in
tutto o in parte le misure che il governo stava prendendo per limitare i
loro profitti o per farli partecipare economicamente all'opera di
ricostruzione." (pag. 68-69)

"Il pericolo è (…) che il governo De Gasperi, d'accordo con i grandi
industriali, con gli agrari, conduca una politica tesa ad impedire oggi
un movimento di massa, domani a strappare una piccola conquista [per i
padroni contro i lavoratori], dopodomani un'altra, cercando di dividere
i lavoratori, facendo agli uni qualche concessione, mostrando i denti
agli altri. Il pericolo dal quale dobbiamo guardarci è quello di cedere
oggi una posizione, domani un'altra e trovarci poi nella condizione di
non poter più avere l'iniziativa. La tattica che l'avversario persegue è
quella di ridurre la forza del nostro partito, di isolarlo da altre
forze, di staccare a poco a poco da noi quelli che possono essere i
nostri alleati. La loro mira è quella di portare la scissione in seno ai
sindacati ed alle organizzazioni di massa". (pag. 84)

"Il pericolo della situazione italiana sta nel fatto che le forze
conservatrici e reazionarie con alla testa De Gasperi e la DC non
adottano la tattica della lotta frontale, ma quella del carciofo,
strappano una foglia oggi ed una foglia domani, ci tolgono oggi un
diritto, domani una posizione, dopodomani attuano un'altra misura
reazionaria e di passo in passo insensibilmente siamo portati a cedere
terreno ed a trovarci in posizione sempre più critica. Il pericolo sta
nel fatto di non apprezzare appieno il valore delle posizioni che di
volta in volta si perdono, di ragionare all'incirca in questo modo: "non
vale la pena di impegnare una grande battaglia per una questione che non
è fondamentale e che può compromettere tutto, vedremo poi". E così di
posizione in posizione, che considerate ad una ad una possono non essere
di grande importanza, si finisce poi, nel complesso, col perdere le
posizioni decisive. Un regime clericale, allo stesso modo di quello
fascista, non lo si realizza di colpo". (pag. 85-86)

Secchia sostiene di non avere dubbi che se le forze reazionarie
attaccassero frontalmente il partito comunista e scatenassero la guerra
civile, le masse popolari ne uscirebbero vittoriose.

"…senza dubbio le forze del movimento democratico in Italia sono tuttora
possenti ed in grado di impedire la realizzazione dei piani reazionari
degli imperialisti americani e dei loro servi, De Gasperi e soci". (pag.
75)

"Non credo che essi pensino ad una restaurazione del fascismo in Italia,
questo non è loro possibile. Un'azione violenta tendente a mettere il
partito comunista, il partito socialista ed i partiti democratici
nell'illegalità sarebbe destinata al fallimento. L'azione violenta tipo
fascista contro di noi darebbe immediatamente slancio e sviluppo alle
forze democratiche. I lavoratori difenderebbero con le armi le libertà
conquistate". (pag. 84)

"Oggi la situazione italiana è tale che a mio modo di vedere possiamo
ancora prendere l'offensiva, vi sono le forze per farlo e se il nemico
cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, malgrado le misure che
con l'aiuto dell'imperialismo americano già ha preso, tuttavia noi
disponiamo ancora di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di
spezzare ogni loro violenza e di portare i lavoratori italiani al
successo decisivo". (pag. 86)

Quindi Secchia non ha dubbi che se la borghesia scatenasse la guerra
civile, le masse popolari ne uscirebbero vittoriose. Lo afferma più
volte. Perché dunque la sinistra del PCI cede anch'essa al ricatto della
guerra civile? Perché non vede altra via per arrivarvi che
l'insurrezione e sa che su questo terreno il PCI sarebbe isolato e
quindi probabilmente perdente: il PCI non riesce neanche a convocare uno
sciopero generale contro la sua esclusione dal governo ad opera di De
Gasperi! Perché non vede altra via? Perché il partito non ha in mano (e
la sinistra non vede che la chiave per uscire dall'impasse è proprio nel
prendere in mano ) l'iniziativa sul terreno della ricostruzione del
paese e, nel corso di essa, della trasformazione delle strutture del
paese che sole "rappresenterebbero qualcosa di effettivamente nuovo e
darebbero stabilità alle posizioni sinora conquistate e che tuttora sono
minacciate" (pag. 69-70) Perché quando era sulla cresta dell'onda non ha
guidato le masse a prendere l'iniziativa della ricostruzione,
costituendo le nuove strutture e non ha continuato su questa strada,
nonostante le minacce di guerra civile, di ricorso alla forza, di
scissione, ecc. da parte delle forze della reazione. Minacce che
probabilmente in quel caso sarebbero rimaste tali. Se invece il Vaticano
e gli USA fossero passati dalla minaccia ai fatti, avrebbero trovato una
risposta vincente. Anche perché, in quel caso, avrebbe mobilitato a suo
vantaggio anche "i sentimenti nazionali e di indipendenza" (pag. 67) "La
lotta delle forze più aggressive dell'imperialismo per conquistare nel
nostro paese posizioni di dominio economico e politico urta, è vero,
contro i sentimenti nazionali e di indipendenza; però noi non dovremmo
farci delle illusioni in proposito, innanzitutto perché questo
risentimento, per avere peso ed efficacia, dovrebbe manifestarsi non
soltanto tra i lavoratori, ma soprattutto in una parte almeno delle
classi possidenti. In secondo luogo è molto più facile suscitare un
movimento di difesa dell'indipendenza nazionale contro un imperialismo
come quello tedesco che è venuto nel nostro paese a saccheggiare, a
distruggere, ecc. e nei confronti del quale le antiche tradizioni hanno
avuto e hanno la loro influenza, che non invece condurre una lotta per
l'indipendenza nei confronti dell'imperialismo americano che si presenta
in Italia dicendo che ci dà tutto quanto ci occorre: aiuti, capitali,
materie prime, ecc. Senza dubbio l'opera di penetrazione
dell'imperialismo americano susciterà malcontento e risentimenti, creerà
condizioni favorevoli allo sviluppo della lotta democratica, ma questo
processo non sarà certo molto rapido."

Secchia critica debolmente la linea che il PCI ha seguito. Non la vede
come una linea antagonista, oggettivamente filoborghese, una linea
oggettivamente di collusione con la borghesia, responsabile del vicolo
cieco in cui il partito si trova, della disfatta a cui il movimento
comunista è condannato se non si trova modo di cambiare strada. Resta
nel vago.

Il partito non "ha valorizzato sufficientemente il movimento
partigiano", non ha "opposto una sufficiente resistenza
all'allontanamento dei partigiani dai posti di direzione dello Stato e
della vita nazionale" (pag. 72), non ha "risposto con un movimento di
massa alla manovra dei liberali concordata con i dirigenti DC" di
rovesciare il governo Parri. "In certi momenti ci siamo lasciati
dominare troppo dalla minaccia di rottura da parte delle forze
conservatrici, in qualche momento ci siamo forse lasciati dominare
troppo dal pericolo della guerra civile" (pag. 73) "Nella nostra azione
di governo vi sono state senza dubbio debolezze ed errori, determinate
posizioni non sono state difese come avremmo dovuto, altre abbiamo
abbandonate senza impegnare troppo la necessaria lotta. In certi momenti
ci siamo lasciati dominare troppo dalla minaccia di rottura da parte
delle forze conservatrici, in qualche momento ci siamo forse lasciati
dominare troppo dal pericolo della guerra civile. Specialmente al
momento della nostra esclusione dal governo, come già ebbe a dire il
compagno Longo alla riunione dell'Informbureau del settembre scorso, 'il
nostro partito è stato particolarmente debole quando noi siamo stati
esclusi dal governo e gettati nell'opposizione. In tale circostanza la
nostra opposizione si è manifestata soprattutto in modo verbale nella
stampa e nei comizi. È soltanto in questi ultimi mesi che una serie di
manifestazioni rivendicative e di azioni di massa hanno dato maggior
vigore alla nostra lotta contro il governo. Questa lotta però rimane
anche oggi sul piano essenzialmente rivendicativo e sindacale e non si è
ancora trasformata in una grande lotta popolare con degli obiettivi
politici precisi'. Non soltanto nel momento della nostra esclusione dal
governo, ma in generale noi non sappiamo sufficientemente legare
l'azione sul piano parlamentare con l'azione extraparlamentare delle
grandi masse". (pag. 73)

Secchia si difende ripetutamente dall'accusa di voler che il partito
lanci l'insurrezione. Sa che i suoi avversari con questa accusa hanno
buon gioco.

"Si afferma anche che 'l'elemento favorevole a noi è soprattutto il
fatto che siamo usciti dal governo senza dare la parola d'ordine
dell'insurrezione, il che ha accresciuto il prestigio del nostro partito
in determinati strati sociali. Ma riteniamo non esatto questo giudizio,
perché non si trattava già di dare la parola d'ordine dell'insurrezione,
ma di organizzare una grande mobilitazione di popolo, prima ancora che
fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla al fare l'insurrezione
ci corre. Ci siamo fatti mettere fuori dal governo senza una grande
protesta di massa, senza proclamare uno sciopero generale di
ventiquattro o di quarantotto ore". (pag. 73-74) "Ripeto, non propongo
di abbandonare la nostra prospettiva di lotta per uno sviluppo
democratico, dobbiamo però avere coscienza che questa lotta diventa più
difficile, sarà sempre più difficile il creare un blocco di forze
democratiche in grado di rovesciare l'attuale situazione". (pag. 84)

Cosa propone Secchia? Lotte più forti, più dimostrazioni, più scioperi.
"Noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise"
(pag. 85) Benché egli stesso abbia già detto che sono difficili a farsi
(sciopererebbero solo i nostri) e di scarsa o nessuna efficacia.

È evidente da questa scorsa del rapporto di Secchia che l'ala sinistra
del PCI era cosciente che la linea che il PCI stava seguendo era
sbagliata, ma non aveva una chiara linea alternativa da sostenere,
neanche di fronte a un pubblico ben disposto ad ascoltarla, come la
Sezione Esteri del CC del PCUS. In conclusione, la classe operaia non
riuscì ad instaurare il socialismo nel nostro paese, perché l'ala destra
del PCI aveva una linea che escludeva l'instaurazione del socialismo e
collimava quindi con gli interessi della borghesia, mentre l'ala
sinistra non aveva alcuna linea alternativa chiara. Oscillava,
criticava, reclamava, proponeva di fare "qualcosa di più" di quello che
già si faceva. La linea dell'ala sinistra consisteva nel contestare la
linea dell'ala destra. In definitiva l'ala sinistra era subordinata
all'ala destra, era l'ala sinistra dell'ala destra. Si creava così una
catena ininterrotta che subordinava ideologicamente alla borghesia tutto
il movimento comunista. Il risultato della forza oggettiva del movimento
comunista furono le conquiste che sostanziarono il "capitalismo dal
volto umano" che ha caratterizzato il nostro paese per circa trent'anni
(fino alla metà degli anni '70) e la cui liquidazione è stata la
sostanza del programma di politica interna della borghesia nei trenta
anni successivi, dalla metà degli anni '70 a oggi.

Le conclusioni da trarre sono quindi due.

1. Il rapporto di Secchia conferma pienamente la nostra tesi che sono i
limiti della sinistra che lasciano via libera alla destra.

2. L'insurrezione popolare è, in determinate circostanze, una manovra
utile e necessaria all'interno di una guerra. Lo era stata ad esempio
nell'aprile 1945. Ma se la assumono come strategia della rivoluzione, la
forza delle cose costringe i comunisti a oscillare tra l'avventurismo e
l'inerzia. Insurrezioni vittoriose i partiti comunisti le hanno condotte
solo come manovre particolari all'interno di una guerra più ampia già in
corso, quindi quando forze militari rivoluzionarie già in opera hanno
appoggiato il movimento insurrezionale. Così era stato nell'aprile 1945,
così era stato nell'Ottobre 1917.

Sono due lezioni di grande importanza per il rinascente movimento
comunista.

NOTE

1. Il movimento comunista ha sempre attirato alcuni individui delle
classi dominanti, soprattutto giovani e donne. Ma soprattutto ha anche
indotto la borghesia a dividersi tra borghesia di destra e borghesia di
sinistra, tanto più quanto più è stato all'altezza del suo compito
storico. E questo nonostante la sostanziale diversità, l'asimmetria,
delle posizioni delle due classi antagoniste. Infatti la classe operaia
non dispone della ricchezza di cui dispone la borghesia e per il suo
ruolo sociale è tenuta lontano dal patrimonio intellettuale della
società: "la cultura dominante è quella della classe dominante".

2. Nel 1916 Lenin riassunse la storia del movimento comunista nei 30
anni precedenti dicendo: "La lotta tra le due tendenze principali del
socialismo, il socialismo rivoluzionario e il socialismo opportunista,
copre l'intero periodo che va dal 1889 al 1914" (Lenin, _L'opportunismo
e il fallimento della II Internazionale_ (1916), in _Opere_ vol. 22).
Durante i quasi 30 anni in questione nel movimento comunista e in
particolare nella II Internazionale, pochi dei dirigenti di rilievo
avevano trattato i contrasti tra linee, analisi e concezioni in termini
di lotta di classe, avevano cioè mostrato la relazione tra le opposte
teorie e le opposte classi. Illustri eccezioni furono F. Engels e V.I.
Lenin. Engels aveva indicato che uno dei fronti indispensabili della
lotta di classe era la lotta teorica e il suo _AntiDühring_ era un'arma
esemplare della lotta di classe sul fronte della concezione del mondo.
Lenin aveva sistematicamente mostrato la relazione tra scontri e
contrasti in campo teorico e la lotta tra le classi per il potere.

La vittoria dei revisionisti moderni in URSS negli anni '50 deve molto
al fatto che, per quanto acuta fosse stata la lotta diretta da Stalin
contro deviazioni e infiltrazioni, il Partito comunista dell'Unione
Sovietica e con esso il movimento comunista tutto non avevano ancora
capito che nei paesi socialisti, una volta abolita per l'essenziale la
proprietà privata dei mezzi di produzione, il pericolo di una
restaurazione capitalista non proviene tanto dai residui delle vecchie
classi sfruttatrici né da quanto resta della piccola produzione
mercantile, quanto dalla nuova borghesia, tipica della fase socialista.
Essa è costituita da quei dirigenti del partito, delle organizzazioni di
massa, dello Stato e di altre istituzioni pubbliche della società
socialista che si oppongono ai passi avanti possibili e necessari verso
il comunismo. Una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di
produzione la lotta per l'adeguamento dei rapporti di produzione al
carattere collettivo delle forze produttive riguarda principalmente i
ruoli nell'organizzazione sociale del lavoro (i rapporti lavoro di
direzione e organizzazione/lavoro esecutivo, dirigenti/diretti, lavoro
intellettuale/lavoro manuale, uomini/donne, adulti/giovani,
città/campagna, settori, regioni e nazioni avanzate/settori, regioni e
nazioni arretrate) e il modo e la misura della ripartizione della
ricchezza sociale destinata al consumo. La teoria della lotta di classe
nella società socialista è uno dei principali apporti del maoismo al
pensiero socialista.

3. A grandi linee, alla fine del secolo XIX il revisionismo ebbe
successo perché la sinistra non aveva una concezione adeguata ai compiti
del periodo a proposito 1. della natura e del ruolo del partito
comunista, 2. della natura dell'imperialismo, 3. delle leggi della
rivoluzione proletaria: i tre campi in cui il leninismo ha dato apporti
da cui il movimento comunista non ha potuto prescindere. Nella seconda
metà del secolo XX il revisionismo ebbe successo perché la sinistra non
aveva una concezione adeguata ai compiti del periodo a proposito 1.
della strategia da seguire per condurre la rivoluzione nei paesi
imperialisti, 2. della lotta di classe nei paesi socialisti, 3. della
natura della rivoluzione nei paesi oppressi: i tre campi in cui il
maoismo ha dato apporti da cui il movimento comunista non può
prescindere.

4. Da una parte il movimento comunista coinvolge e deve coinvolgere
strati via via più larghi e nuovi della classe operaia e delle masse
popolari, deve assolutamente evitare di ridursi a un movimento che
coinvolge solo quelli che sono già comunisti per concezione e
convinzione. Dall'altra parte esso non può completamente eliminare al
suo interno differenze importanti di condizioni materiali, di
istruzione, di capacità di direzione e di comando. Quindi esiste sempre
nel movimento comunista sia una parte meno avanzata, sia una parte più
esposta all'influenza della borghesia, più vicina alla borghesia per le
sue condizioni sociali o il suo ruolo sociale, meno ardente e
determinata nella lotta di classe. Dobbiamo sempre ricordare quello che
ci ha detto uno dei nostri maestri: "La rivoluzione in Europa non può
essere altro che l'esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi
e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli
operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente - senza una tale
partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile
nessuna rivoluzione - e porteranno nel movimento, non meno
inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasticherie reazionarie,
le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno
il capitale e l'avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato
avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia
e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e
dirigerla, conquistare il potere, prendere le banche, espropriare i
trust odiati da tutti (benché per ragioni diverse!) e attuare altre
misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all'abbattimento
della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si 'epurerà'
dalle scorie piccolo-borghesi tutt'altro che di colpo". V.I. Lenin,
_Risultati della discussione sull'autodecisione_ (1916), in _Opere_ vol.
22.

5. CARC_, Il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla
classe operaia nella sua lotta per il potere _(1995), Edizioni Rapporti
Sociali.

Renzo Del Carria, _Proletariato senza rivoluzione_, Edizione Oriente
1970, vol. 2 capitolo XXI _Il capitalismo "perfeziona" gli strumenti del
proprio potere (1945-1948). Le masse reagiscono spontaneamente alla
mancata rivoluzione (14 luglio 1948). La svolta degli anni cinquanta_.
L'opera di R. Del Carria è stata ripubblicata nel 1975 e 1977
dall'editore Savelli.

6. È falso ed è un'invenzione della campagna di denigrazione del
movimento comunista che l'instaurazione del socialismo nelle democrazie
popolari dell'Europa centrale e orientale sia frutto solo
dell'intervento dell'Armata Rossa. È però vero che la presenza
dell'Armata Rossa e comunque la vicinanza dell'Unione Sovietica ebbero
un ruolo importante, benché in misura diversa da paese a paese,
nell'instaurazione del socialismo e poi nella vita politica, economica e
culturale di ognuno dei paesi. La lezione confermata dall'esperienza è
che quanto meno un movimento comunista è risultato della realtà
culturale, politica ed economica del suo paese, quanto meno largamente e
strettamente è legato alle masse popolari del suo paese e quanto meno da
esse trae la sua forza, tanto più esso è debole di fronte alla reazione
e tanto più precaria è la sua vita.

7. Vedere il bilancio della rivoluzione spagnola elaborato dal Partito
comunista (ricostruito) di Spagna (PCE(R)) in _La guerra di Spagna, il
PCE e l'Internazionale Comunista_, Edizioni Rapporti Sociali. È
importante rilevare che nel movimento comunista italiano si è parlato
molto della guerra di Spagna. Il fascismo vi aveva preso parte
politicamente e militarmente. Il movimento comunista aveva arruolato
volontari per le Brigate internazionali. Ma il bilancio di
quell'esperienza che circolò sempre nel movimento comunista italiano
poneva la causa della sconfitta nella forza e nella ferocia del nemico
o, da parte trotzkista e anarchica, nell'"opera del diavolo" Stalin che
non avrebbe voluto che la rivoluzione trionfasse in Spagna.

8. "Nonostante le origini da una lotta contro degenerazioni di destra e
centriste del movimento operaio, il pericolo di deviazioni di destra è
presente nel Partito comunista d'Italia. ... Il pericolo che si crei una
tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La
compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare
l'opinione che, essendo il proletariato nell'impossibilità di
rapidamente rovesciare il regime, sia miglior tattica quella che porti,
se non a un blocco borghese-proletario per l'eliminazione costituzionale
del fascismo, a una passività dell'avanguardia rivoluzionaria, a un
non-intervento del partito comunista nella lotta politica immediata,
onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa
di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta
con la formula che il partito comunista deve essere "l'ala sinistra" di
un'opposizione composta da tutte le forze che cospirano all'abbattimento
del regime fascista. Esso è espressione di un profondo pessimismo circa
le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice". _Tesi di Lione_
(1926), cap. 4, tesi 26.

9. Nell'intervista rilasciata al _New York Times_ nella primavera del
1946 e poi ritrattata a seguito delle critiche di cui fu oggetto,
Maurice Thorez, segretario generale del Partito comunista francese,
proclamava per la Francia la via pacifica e parlamentare al socialismo.

10. Del rapporto tenuto il 16 dicembre 1947 da Secchia esiste il testo
scritto che egli aveva preparato e uno stenogramma conservato negli
archivi russi. Il testo scritto è stato pubblicato in _Archivio di
Pietro Secchia 1945-1973_, ed. Feltrinelli, Milano 1979 (pag. 609-627)
e, recentemente, nell'antologia di scritti e discorsi di Pietro Secchia,
_Il partito, le masse e l'assalto al cielo_, a cura di Marcello
Graziosi, ed. La Città del Sole, 2006. Da questo testo sono prese le
citazioni riportate in questo articolo. Questo testo è reperibile anche
sul sito internet del (n)PCI nella rubrica Letteratura comunista. A
detta di Marcello Graziosi, lo stenogramma conservato negli archivi
russi concorda sostanzialmente con il testo scritto pubblicato in Italia
nel 1979.

11. La rinuncia del PCI a dirigere le masse popolari a prendere in mano
fin dall'aprile 1945 la ricostruzione del paese convinse ampi strati
delle masse popolari e quella parte della borghesia che (a qualche
maniera e per diversi motivi) seguiva il movimento comunista, che
effettivamente la ricostruzione del paese era impossibile senza la
direzione della borghesia imperialista e senza l'"aiuto"
dell'imperialismo americano. Questo aiuto si concretizzerà nel piano
Marshall di insediamento industriale, finanziario e politico USA in
Italia e in Europa. La tesi di cui si facevano forti De Gasperi e le
forze reazionarie.

12. A proposito dei limiti non superati dalla borghesia italiana nel
governare direttamente, quindi delle origini dell'"anomalia italiana",
del "capitalismo impresentabile", ecc. vedere Plinio M., _Il futuro del
vaticano_ (2006), in _La Voce_ n. 23.

13. Marx ha elaborato e illustrato la categoria del bonapartismo, per
indicare un regime politico che assicurava la conservazione
dell'ordinamento sociale borghese (e quindi difendeva un contesto in cui
la borghesia poteva fare i suoi affari) in circostanze in cui la
borghesia non era in grado di governare direttamente (Marx, _Le lotte di
classe in Francia dal 1848 al 1850_, in _Opere complete_ vol. 10)

14. A proposito della combinazione tra contadini che lottano per
obiettivi progressisti (il possesso della terra, la cacciata degli
agrari, la fine delle residue angherie feudali) e il clero e i nobili
antiunitari nel Risorgimento e dopo, vedere Plinio M., _Il futuro del
Vaticano _(2006), in _La Voce_ n. 23.

15. Vedi Marco Martinengo, _Riforma o difesa della Costituzione_, in
_Rapporti Sociali_ n. 36 (gennaio 2007).

14. Secchia nel suo rapporto aveva citato un'affermazione fatta da
Togliatti nella sua relazione al CC del PCI nel luglio 1947, dopo
l'esclusione dal governo ad opera di De Gasperi. Togliatti aveva detto:
"Ciò [l'estromissione del PCI e del PSI dal governo] ha rappresentato
una sconfitta della democrazia; questa sconfitta le forze democratiche
l'hanno subita sul terreno governativo parlamentare e non nel paese;
possiamo sempre affermare e dimostrare che mentre il paese si è spostato
in una direzione, l'asse governativo parlamentare si è spostato in
un'altra direzione; potremo sempre consolarci dimostrando che le cose
stanno così e potremo dimostrare che la situazione governativa
parlamentare non risponde alla situazione democratica del paese. Però
sta di fatto che questa situazione di avanzata della democrazia
esistente nel paese non siamo riusciti a farla valere sul terreno
governativo parlamentare, il che rappresenta senza dubbio una
sconfitta."

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