[Hackmeeting] Il nostro tempo è adesso: comunicazione e prec…

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Author: arturo
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To: hackmeeting
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Subject: [Hackmeeting] Il nostro tempo è adesso: comunicazione e precariato
Il nostro tempo è adesso http://www.ilnostrotempoeadesso.it
Il 9 aprile si svolgerà una grande giornata di mobilitazione in cui
precari, disoccupati, lavoratori autonomi, studenti, giovani senza
diritti scenderanno in piazza per dire basta.

Il nostro tempo è adesso
La comunicazione e la fabbrica del precariato
Arturo Di Corinto

Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno
modificato profondamente il modo di produrre ricchezza da parte
dell’industria, hanno consentito una maggiore automazione dei comparti
produttivi tradizionali e la dematerializzazione di prodotti di consumo,
prevalentemente ludici, scientifici e culturali, ma soprattutto hanno
modificato il mondo dei media e della comunicazione e il ruolo loro
attribuito nella società.
Nella società digitale si è ampliato a dismisura il ruolo dei media e
della comunicazione e lì dove c’è comunicazione, produzione di sapere e
di discorso, lì c’è il potere. Un potere nomadico, che non risiede in
strutture stabili e definite e che non è un semplice fatto, una
struttura che si conserva e che viene annientata, ma un sistema di
relazioni che decide di volta in volta chi ha potere di parola e chi no,
determinando l’agenda setting – ciò di cui si parla e che richiede il
formarsi di un’opinione – dando un ruolo cruciale agli stregoni della
notizia – gli spin doctors – e che determina nuove forme di esclusione
rendendo il sapere inaccessibile. Proprio oggi che la mancanza di
accesso al sapere e alla comunicazione equivale sempre di più
all’esclusione dal lavoro e dai diritti.
E’ in questo rapporto fra il potere e la comunicazione che va sviluppata
la nostra critica. La produzione controllata di sapere oggi è tutt’uno
con la condizione di assoggettamento dei nuovi schiavi della
comunicazione che svolgono vecchie e nuove professioni: nella
formazione, nel giornalismo, nelle pubbliche relazioni, nel marketing e
nella pubblicità, siano essi designer, copywriter, fotografi, registi, o
che lavorino negli uffici stampa, nell’editoria cartacea e nelle
professioni Internet.
Questi “comunicatori” che hanno a che fare con tutto ciò che ruota
intorno alla cultura sono figure multiformi e sfuggenti, i jolly
dell’economia moderna. Il comunicatore migliora la performance
aziendale, fa circolare l’informazione e crea valore aggiunto. Il
comunicatore però non è un eroe del nostro tempo ma un proletario
mentale che fa della velocità e della precarietà le sue caratteristiche
principali che però devono essere continuamente adattate alla catena di
montaggio della fabbrica dei media e del desiderio. Un sistema in cui la
creatività intesa come trasmissione culturale viene applicata alle
merendine e alla schiuma da barba e dove l’etica e i valori sono un
optional.
E’ irreggimentando i comunicatori che la comunicazione e la cultura
asservite alla logica spettacolare dei media, diventano subalterne
all’audience intesa come fonte di profitto. E’ con il ricatto della
precarietà che si produce conformismo e censura preventiva.
Volete un esempio? Il precariato sta uccidendo il giornalismo. Più del
web, che ruba risorse e lettori alla carta stampata. Più dei
telegiornali da operetta che rimangono il mezzo principe che gli
italiani usano per informarsi. Più della crisi di credibilità delle
grandi testate e dei giornalisti embedded. E gli editori di giornali in
Italia pare non vogliano rendersene conto, convinti come sono che la
crisi ormai permanente del settore si affronti con la riduzione dei
costi e il taglio del personale, senza riconoscere i diritti dei
contratti collettivi e usando come forza lavoro a basso costo gli
stagisti delle facoltà di comunicazione e i neolaureati in cerca
d’impiego, pur sfruttato e malpagato.
C’è una soluzione a questo stato di cose?
Non c’è bisogno di essere marxisti per capire che la comunicazione è una
merce che foraggia il sistema dei media che fa vendere le merci, con
tutto quello che ne consegue: omologazione verso il basso dei gusti e
dei comportamenti, contaminazione dei generi, produzione di consenso.
Che fare? Anzitutto prendere coscienza di questa situazione, non
considerarla ineluttabile, ma collegarsi, connettersi, resistere. Come?
Mobilitandosi. Sul web e fuori. Nelle scuole e nei centri sociali.
Attraverso l’autoinchiesta, con la conricerca, per comprendere come la
comunicazione sia fabbrica e recinto e che a dispetto della grande
disponibilità di mezzi per comunicare si comunica poco e male. Perché
manca quell’aspetto di tessitura relazionale, di costruzione collettiva
del significato che è l’essenza della comunicazione.
Poi però la parola deve passare alla politica che deve essere capace di
fare proposte nette, come quella di un reddito garantito per gli
intermittenti dello spettacolo, come quella di facilitare l’accesso alle
professioni dell’informazione ridiscutendo il ruolo degli ordini
professionali, o studiando un sistema di ammortizzatori sociali per
arti, mestieri e professioni che sono per natura basati
sull’apprendimento continuo e si ricreano incessantemente nei circuiti
della relazione sociale.
Altro che riduzione di stipendio, libertà di licenziare e guerre fra
poveri: è tempo di chiedere più tempo, più soldi, più diritti per chi
lavora nella produzione di cultura e comunicazione.