[NuovoLab] L'Odissea dei profughi somali le botte in Libia, …

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Author: Alfredo Simone
Date:  
To: forumgenova
Subject: [NuovoLab] L'Odissea dei profughi somali le botte in Libia, la miseria in Italia


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Repubblica 12/07/10






    


            L'Odissea dei profughi somalile
 botte in Libia, la miseria in Italia



            Al Meeting contro il razzismo 
organizzato dall'Arci le storie di chi è costretto a scappare dalla 
propria terra. "Nelle carceri libiche ci svegliavano a bastonate"



            di CARLO CIAVONI








































                    CECINA  - 
"Fateci caso, guardando le immagini di chi arriva dall'Africa sono in 
molto a baciare la terra appena arrivati. La terra di Sicilia, più 
spesso, comunque la terra da ringraziare, proprio come si fa in molti 
paesi dell'Africa, quando si bacia la mano del più anziano della 
famiglia". Hassan Maamri, responsabile dell'immigrazione per l'Arci in 
Sicilia presenta in pubblico, al Meeting contro il razzismo organizzato 
dall'Arci, quattro giovani rifugiati provenienti dall'Eritrea e dalla 
Somalia, uniti dallo stesso destino di essere stati ospiti delle carceri
 libiche, prima di riuscire a baciare la terra europea, in Sicilia. A 
parlare italiano sono soltanto i due somali, che si sono alternati al 
microfono, cercando alla meglio di raccontare il loro incubo, ma è solo 
prendendoli da parte e facendo loro raccontare tutto da capo, con 
l'aiuto dell'interprete che viene fuori tutto l'orrore subìto. E' 
parlando di loro che Maamri ha usato l'espressione "vulnerabilità 
invisibile", intendendo dire che sono queste le persone da considerare 
fragili, alla stregua delle donne o dei piccoli rifugiati, proprio 
perché, al di là del loro aspetto giovanile e sano, e dei loro luminosi 
sorrisi, c'è un vortice oscuro di ricordi terribili, che si sommano al 
doloro per la lontananza che vedono incolmabile dai loro cari.  A
 parlare è Yonis Abdi Hassan, 26 anni, giornalista del quotidiano Al 
Fari Jadiid, sposato con una ventunenne e padre di Mohamud, 4 anni. 
Racconta di essere 
  stato costretto a fuggire, dopo una serie di articoli che 
denunciavano una serie di assalti degli Shabad Mujaeddin, un gruppo di 
integralisti islamici, contro un cimitero italiano a Mogadiscio. Assalti
 che avevano messo in moto un fenomeno di difesa, da parte di altre 
persone che, pagate profumatamente, andavano nello stesso cimitero per 
aprire le tombe e sottrarre i cadaveri per consegnarli poi ai loro 
famigliari. L'aver denunciato questo stato di cose ha provocato una 
reazione immediata, sebbene gli articoli pubblicati non fossero neanche 
firmati: "Una bella mattina - racconta Yonis - mi è arrivata una 
telefonata con la quale mi diceva chiaro e tondo e senza mezzi termini 
che avrei dovuto andarmene entro due giorni dalla Somalia, oppure entro 
due ore mi avrebbero fatto fuori. Un'alternativa del genere in Somalia, 
di questi tempi non va sottovalutata. Lì le cose se te le dicono così, 
poi succedono davvero". La fuga. "Era l'alba del 10 marzo 2007 
quando ho dato l'ultimo bacio a mia moglie e al piccolo Mohamud, che 
aveva due mesi allora. Sono salito su un pulmino con altre nove persone e
 abbiamo cominciato a correre verso l'Etiopia. Ad Addis Abeba siamo 
arrivati dieci giorno dopo, dove mi sono fermato per altri 20 giorni per
 lavorare e mettere insieme un po' di soldi per continuare il viaggio. 
Quindi - racconta ancora Yonis - nuova partenza, questa volta verso il 
Sudan. A Khartum sono rimasto quasi un mese, 28 giorni per l'esattezza, 
sempre per racimolare altre risorse per continuare il viaggio. Ma 
proprio da Khartum stava per cominciare la parte più terribile della mia
 esperienza. C'era da attraversare il Sahara, a bordo di un camion pieno
 zeppo, 3000 chilometri di inferno, con l'acqua e il cibo che ad un 
certo punto non c'erano più". Varcato il confine libico, è 
possibile fare due tipi di incontri. Si può essere accolti dalla polizia
 vera, oppure da falsi poliziotti. In tutte e due i casi, i giorni che 
seguiranno quell'incontro non saranno facilmente dimenticabili. Yonis ha
 avuto la "fortuna"  di finire nelle mani di veri poliziotti che, senza 
neanche chiedergli il nome o altro, lo hanno ammanettato e sbattuto in 
galera, nel carcere di Kufra, la prima città libica dopo il confine. 
"Anche qui - prosegue il racconto di Yonis - posso dire di aver avuto 
fortuna, perché anziché finire nelle celle sotto terra, mi hanno 
sistemato in quelle seminterrato. Uno stanzone di 6 metri per 5 dove 
c'erano già una cinquantina di persone. Niente bagno, niente servizi 
igienici, meno che mai letti. Sono rimasto lì dentro per sei mesi e per 
sei mesi ho dormito seduto accovacciato, con il viso premuto sulle 
ginocchia. La sveglia del mattino era a base di frustate con i fili 
elettrici o con le bastonate. Così, senza una vera ragione. Era solo il 
loro modo di svegliarci. Dopo sei mesi di questa vita hanno cominciato a
 dire in giro che per uscire bastava sborsare 500 dollari. Io non avevo 
più nulla e così mi hanno offerto l'occasione di lavorare pulendo il 
carcere, per guadagnarmi, tra una bastonata e l'altra, il diritto a 
uscire. Così è stato, alla fine, dopo altri 5 mesi di lavori forzati e 
botte su botte continue, senza ragione". L'odissea di Yonis 
continua a Tripoli, capitale della Libia, dove il giovane giornalista 
somalo arriva pagando 500 dollari (una tariffa evidentemente fissa nel 
sistema di corruzione della polizia libica). Qui rimane un altro anno 
facendo i lavori più disparati: l'agricoltore, il facchino, il lavaggio 
delle macchina, ma sempre con l'incubo di incontrare qualche poliziotto,
 vero o fasullo, tanto faceva lo stesso, che lo risbattese in galera. 
"E' stato un anno di tensione continua, sempre a scappare, a nascondersi
 come un topo, con sulla pelle ancora il bruciore delle botte subite in 
carcere". Alla fine ecco il giorno della partenza. "Ci siamo imbarcati a
 Tripoli e dopo una settimana siamo sbarcati a Siracusa, quando però 
ancora non erano entrati in vigore i respingimenti del governo, 
d'accordo con quello libico, che oggi impedisce a chi ha titolo di 
chiedere asilo politico anche solo di poter entrare in contatto con le 
autorità italiane".  Oggi Yonis e altri giovani come lui, vive a 
Caltagirone, dove lavora saltuariamente, ma dove ogni mese deve pagare 
200 euro d'affitto per una stanza, con un letto, un bagno, ma che non ha
 la luce. "Quella, se voglio, la pago a parte", ha detto.










            (11 luglio 2010)


         
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