Terra rimossa Intervista a Joel Carmel, ex militare e oggi membro dell’organizzazione israeliana Breaking the Silence: «È un sottoprodotto delle politiche disumanizzanti dei palestinesi che il governo ha portato avanti negli ultimi anni. Ma non siamo noi le vittime: noi siamo i perpetratori»
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oEdizione 09/12/2025
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Filippo Zingone
Mentre la situazione in Cisgiordania peggiora di ora in ora, abbiamo parlato con Joel Carmel, ex militare e oggi direttore delle attività di advocacy per l’organizzazione israeliana Breaking the Silence. Un’associazione di ex militari israeliani nata nel 2004 che si occupa di raccogliere le testimonianze dei soldati riguardo le azioni che compiono contro i palestinesi, per poi pubblicarle e informare la società israeliana di quello che succede sul campo.
Cosa sapete, come Breaking the Silence, della situazione dei giovani soldati che tornano dal campo?
È chiaro che negli ultimi anni, soprattutto dal 7 ottobre, qualcosa è cambiato. I soldati vengono mandati a fare cose folli. Gli eventi del 7 ottobre hanno traumatizzato molti israeliani. È un paese piccolo: tutti conoscono qualcuno che è stato ucciso, rapito o ferito. La società porta un grande trauma, i soldati vengono mandati a eseguire ordini incredibili e la continua pressione necessaria per far sì che riescano a “funzionare” li sta distruggendo. Vediamo forme estreme di reazione al trauma, come il suicidio. Ma ci sono anche aspetti meno riportati: persone che non riescono a tornare alla vita normale, né a gestire una vita familiare o a mantenere un lavoro; episodi di violenza domestica. Questo ha impregnato profondamente la società israeliana, anche perché tantissime persone sono state richiamate come riservisti: non solo ragazzi di 18-21 anni, ma anche uomini che avevano servito dieci anni prima e ora hanno 30, 40 anni. Voglio essere chiaro: questo è un sottoprodotto delle politiche che il governo ha portato avanti negli ultimi anni. Ma non siamo noi le vittime: noi siamo i perpetratori. E questo è il prezzo, un prezzo terribile. Nulla di tutto questo sarebbe accaduto se il governo israeliano non avesse voluto che accadesse.
Riguardo ai soldati che tornano, quante persone si avvicinano a Breaking the Silence?
C’è sicuramente stato un grande aumento rispetto agli anni precedenti. All’inizio, subito dopo il 7 ottobre, era molto difficile per le persone farsi avanti. Già dalle prime fasi vedevano cose terribili accadere a Gaza, ma c’era una forte pressione sociale a non criticare nulla: si diceva che dopo anni di divisioni interne bisognava “stare uniti”, sostenere i soldati, combattere e vincere. Questo rendeva difficile dire: «Quello che sta succedendo è inaccettabile». Ma col tempo è diventato chiaro a sempre più soldati che gli obiettivi della guerra non venivano raggiunti e che ciò era dovuto a una politica governativa sconsiderata: la guerra veniva prolungata per motivi politici. Quindi, più soldati e più israeliani si sono sentiti sicuri nel parlare. Purtroppo molto di ciò che abbiamo visto a Gaza negli ultimi due anni si sta normalizzando in Cisgiordania. Quindi non è affatto finita.
Gli israeliani stanno iniziando a vedere i palestinesi in modo diverso, o siamo ancora lontani?
Purtroppo siamo ancora lontani. Ci sono piccoli segnali: alcune persone che erano già un po’ di sinistra ora lo sono di più. Le persone escono a protestare, anche nelle zone occupate, per cercare di proteggere i palestinesi dalle violenze dei coloni. Ci sono più israeliani disposti fisicamente a mettersi tra coloni e palestinesi. Questo esiste, ma resta marginale. C’è più critica verso il governo, ma riguarda soprattutto questioni interne: Netanyahu che cerca di evitare il processo, o di evitare un’inchiesta sul 7 ottobre e i fallimenti che l’hanno reso possibile. C’è dissenso su questo. Ma purtroppo, la maggior parte delle critiche non riguarda i diritti dei palestinesi. La maggior parte della società non sente che dobbiamo trattare i palestinesi come esseri umani con diritti. Ed è molto triste. Parte della responsabilità è dell’opposizione politica, che non sfida davvero il governo su nulla di legato ai palestinesi. Il prezzo che pagheremo è che questo ciclo di violenza non finirà.
La settimana scorsa il ministro Ben Gvir ha promosso due soldati che hanno giustiziato due palestinesi: cosa ne pensa?
Ciò che abbiamo visto è stata una esecuzione. Non stavano attaccando, si erano arresi, mani in alto, senza alcun pericolo per i soldati. E sono stati giustiziati. Questo deriva da decenni di disumanizzazione dei palestinesi. Non li vediamo come persone, ma come potenziali minacce o terroristi. Però questo non è successo da un giorno all’altro: è il risultato di un processo di anni. Poi questo episodio è legato a ciò che chiamiamo la «gazificazione» della Cisgiordania. In molte aree di Gaza, negli ultimi due anni, i soldati sparavano ai palestinesi a vista. I soldati si sono abituati a una mentalità di «sparare per uccidere», soprattutto verso maschi in età da combattimento. Molti dei militari che ora servono in Cisgiordania hanno servito a Gaza e portano con sé quella mentalità in un contesto completamente diverso. Infine tutti sanno di godere di totale impunità. Ci sono state pochissime indagini o riflessioni su ciò che è successo. I soldati si sono abituati all’idea che possono fare ciò che vogliono e poi dire «era autodifesa» o neanche spiegarsi. La prova è Ben Gvir che promuove gli ufficiali coinvolti. Per lui è importante mostrare ai suoi sostenitori che non gli importa della legge e che sta dalla parte dei soldati. È una cosa terribile per una società che pretende di essere democratica e rispettosa dei diritti.
Ha parlato della gazificazione della Cisgiordania. Cosa pensa che accadrà nelle prossime settimane o mesi?
Da molto tempo diciamo che la Cisgiordania è sull’orlo dell’esplosione e accadrà prima o poi. Quello che vediamo ora è una combinazione di enormi restrizioni sui palestinesi: dall’inizio della guerra non possono più lavorare in Israele, che è una parte fondamentale della loro economia, poi restrizioni di movimento, nuovi checkpoint, cancelli e barriere dentro la Cisgiordania che rendono gli spostamenti quasi impossibili. C’è una massiccia espansione di avamposti dei coloni e degli insediamenti. La violenza dei coloni è quotidiana ed è difficile perfino per noi che monitoriamo la situazione stare al passo. La vita è diventata un inferno per i palestinesi: l’obiettivo è rendere la vita invivibile nell’area C, e ora anche in parti dell’area B, per spingere i palestinesi in enclavi sempre più piccole e liberare più terra possibile per l’espansione dei coloni. Questo era già parte della politica di occupazione prima del 7 ottobre. Lo abbiamo visto a Gaza: comprimere i palestinesi in spazi sempre più piccoli, frammentare la società, liberare terra. Ora è molto evidente anche in Cisgiordania, e temo conseguenze molto gravi.
Pensa che il potere dei coloni sia un problema per una soluzione futura e per la società israeliana stessa?
Sì. Da più di due anni c’è una politica, portata avanti soprattutto da Ben Gvir, che rende facilissimo ottenere armi. Questo contribuisce alla violenza nella società israeliana. È davvero spaventoso. Come attivista e come padre, ho paura e ovviamente i palestinesi hanno ancor più motivo di temere quando si trovano di fronte coloni armati. È un enorme problema dentro la società israeliana, ci sono sempre meno freni per le persone violente. L’impunità non riguarda solo i soldati. Qualche mese fa, un attivista e un amico Awdah Hathalin è stato ucciso da un colono che è stato rilasciato senza conseguenze. Questo tipo di cose diventa sempre più comune ed è molto preoccupante.
Cosa pensa del trattamento verso i giornalisti internazionali che non possono entrare a Gaza e vengono sempre più respinti in Cisgiordania?
È ridicolo. Stanno cercando di mettere a tacere le critiche. I media internazionali non saranno favorevoli a Israele perché non c’è nulla da mostrare di favorevole. Una volta Israele cercava di controllare la narrazione mostrando le cose positive e nascondendo l’occupazione. Ora c’è troppo da nascondere, quindi preferiscono semplicemente non far entrare la gente.