Come fanno lo sciopero le donne, o meglio, se le donne fanno sciopero
 
 
 Le donne sono privilegiate. Hanno il privilegio di essere soggetti 
 precari per eccellenza, che come tali hanno bisogno di essere 
 salvaguardate. Il governo italiano ha pensato a questo nella definizione 
 della manovra economica appena approvata: l’articolo 8, che smantella le 
 norme sul licenziamento con giusta causa contenute nell’articolo 18 
 dello statuto dei lavoratori, salvaguarda le donne in prossimità del 
 matrimonio e quelle in maternità, che non potranno essere licenziate. Un 
 grande privilegio! Anche se a ben guardare a essere tutelate non sono le 
 donne, ma il sistema che le penalizza per il fatto stesso che possono 
 diventare madri e che da sempre le costringe a occupare, dentro al 
 lavoro, una posizione di subordinazione. L’effetto della manovra, 
 perciò, sarà quello di relegare ancor più le donne alla precarietà 
 contrattuale (che già di per sé superava ogni eventuale vincolo al 
 licenziamento), quando non di tenerle del tutto fuori dal mercato del 
 lavoro.
 Il governo – non solo questo governo – lo sa bene che essere madri o 
 poterlo diventare, ed essere «per definizione» destinate a occuparsi 
 della famiglia e del lavoro riproduttivo penalizza le donne. Le norme 
 che dovrebbero agevolare il loro inserimento nel mercato del lavoro – le 
 ultime sono state nobilmente approvate l’8 marzo – considerano la 
 flessibilità come strumento per conciliare lavoro e famiglia, così che 
 l’aumento esponenziale dei contratti precari per le donne è visto come 
 uno strumento indispensabile per garantire una realizzazione personale 
 che non sia semplice imitazione del modello maschile. Le donne stiano a 
 casa, anche quando lavorano! E siano grate se qualcuno, 
 paternalisticamente, si preoccupa della «conciliazione» del doppio 
 carico di lavoro che il patriarcato, in queste forme aggiornate e 
 politicamente corrette, continua ad attribuire loro.Grate di essere 
 privilegiate e considerate «soggetti deboli» che devono essere tutelati 
 affinché la loro debolezza rimanga tale.
 Anche i padroni lo sanno bene che essere madri ed essere «per 
 definizione» destinate a occuparsi della famiglia e del lavoro 
 riproduttivo penalizza le donne. La maternità (reale o potenziale) 
 continua a essere uno scoglio per l’inserimento nel mondo lavoro per le 
 donne, e si traduce in un ricatto e nella continua minaccia di 
 esclusione dal mercato del lavoro o nell’accettazione di condizioni 
 lavorative sempre peggiori. La storia di R. descrive le conseguenze 
 surreali di questa realtà, quando la «sterilità» viene inventata per 
 ottenere un impiego in cambio della promessa di dedicare tutta la 
 propria cura al solo lavoro. Questa situazione è solo aggravata dal 
 progressivo smantellamento del welfare, che rende il lavoro riproduttivo 
 un problema individuale. La precarietà si gioca anche sulla riduzione 
 dei costi sociali di produzione e riproduzione, e le donne come 
 «prestatrici di servizi riproduttivi» sono un tassello fondamentale di 
 questo processo.
 I servizi riproduttivi però non sono più soltanto gratuiti. Che molte 
 donne siano riuscite a emanciparsi dal destino domestico e dal lavoro 
 riproduttivo non pagato non ha liberato le donne in quanto tali da una 
 divisione sessuale del lavoro, che è anch’essa molto cambiata e si è 
 messa al passo coi tempi. La «badante» è ormai divenuta una figura 
 istituzionale. È istituzionalizzata dalla legge Bossi-Fini, che con la 
 tristemente nota «sanatoria truffa» ha derogato alla chiusura delle 
 frontiere per rifornire il paese di questa indispensabile forza lavoro 
 femminile (un privilegio, ancora una volta!). È implicitamente 
 istituzionalizzata nel momento in cui il governo ha innalzato l’età 
 pensionabile delle donne, che «liberate dal lavoro riproduttivo» grazie 
 alla messa al lavoro di altre donne non hanno più bisogno di un 
 riconoscimento in termini previdenziali (all’occorrenza, smettiamo di 
 essere soggetti deboli e diventiamo emancipate…). La badante è in questo 
 modo la figura istituzionale dell’individualizzazione del fardello 
 riproduttivo: questo si gestisce attraverso un rapporto di lavoro 
 privato, servizio in cambio di salario. E questa individualizzazione è 
 il segno comune di pubblico e privato: qui le donne pagano – spesso con 
 il proprio salario – altre donne perché svolgano il lavoro domestico e 
 di cura; lì il «welfare» che ancora sopravvive fornisce contributi 
 monetari perché si paghi – ancora privatamente – lavoro domestico e di 
 cura. Certo è che la «badante» è un pilastro della società. Senza di 
 lei, tutto si ferma…
 Ma il punto è proprio questo: in che modo è possibile far valere questa 
 forza?
 Questa domanda è parte essenziale della scommessa dello sciopero 
 precario. Perché le donne hanno davvero il paradossale privilegio di 
 essere una figura centrale nella precarietà e non soltanto in termini 
 statistici. Per rispondere a questa domanda bisogna però farsi carico 
 della specificità della condizione vissuta dalle donne e delle 
 differenze di cui fanno esperienza, come donne, come precarie e come 
 migranti. Come possiamo essere in prima persona protagoniste di uno 
 sciopero precario quando siamo sottoposte non solo al ricatto di un 
 lavoro sul quale pende la mannaia del licenziamento e del bisogno 
 economico accentuato dalla crisi, ma anche alla discriminazione subita 
 come lavoratrici femmine, alla paura di essere espulse dal lavoro dopo 
 aver fatto tanta fatica a entrarci? Come possiamo occupare lo spazio 
 pubblico della lotta quando il nostro lavoro è confinato nel privato, 
 quando siamo isolate nello spazio domestico e per di più legate, come 
 migranti, al contratto di soggiorno per lavoro, così che licenziamento 
 può sempre significare anche espulsione? Come è possibile far valere 
 politicamente non soltanto la specificità del lavoro di cura e 
 dell’investimento affettivo che esso comporta, ma anche il rifiuto della 
 cura, il rifiuto di essere destinate a occupare un unico posto 
 nell’organizzazione patriarcale del lavoro precario? Come possiamo 
 costruire rapporti dentro al lavoro con altre figure della precarietà 
 quando siamo precarie tre volte, e ciò significa che sul luogo di lavoro 
 siamo dentro a conflitti e competizione con chi ha un contratto 
 instabile come il nostro oppure ci vede come una minaccia alla propria 
 parziale stabilità; con chi non perde l’occasione di sottolineare la 
 nostra debolezza come donne e fa del sesso una leva per condannarci alla 
 debolezza e all’inferiorità; con chi ci vede migranti che «rubano il 
 lavoro» o sono buone soltanto a occuparsi di anziani, bambini e camicie 
 da stirare per 500 € al mese?
 Ciascuna di queste difficoltà segnala anche una possibilità nel 
 processo di costruzione dello sciopero precario: perché mostra che le 
 donne, le precarie, le migranti, sono al centro della produzione e della 
 riproduzione sociale contemporanee. Non sono solo un segmento del lavoro 
 tra gli altri, ma occupano una posizione che permette di mostrare i modi 
 specifici attraverso i quali la precarietà diventa la forma 
 contemporanea di tutto il lavoro. I «privilegi» assegnati alle donne, 
 che esprimono la forma del loro sfruttamento, rappresentano anche il 
 punto di tensione dove le donne possono far esplodere l’ordine dato. Le 
 donne, le migranti, le precarie non sono nel business: sono il business. 
 E lo sciopero precario dovrà perciò parlare di loro e soprattutto con 
 loro.
 
 
 
http://migranda.org/materiali-2/abbiamo-scritto/come-fanno-lo-sciopero-le-donne-o-meglio-se-le-donne-fanno-sciopero/