Author: norma Date: To: forumgenova@inventati.org, Fori sociali Subject: [NuovoLab] domani in piazza
La rete controg8 per la globalizzazione dei diritti ed il centro ligure
di documentazione per la pace aderiscono alla manifestazione di
solidarietà con i popoli nordafricani che si terrà domani alle 15.30 in
piazza De Ferrari , Genova; e distribuiranno il volantino incollato di
seguito
AL VIA LA NUOVA SPARTIZIONE DEL CONTINENTE AFRICA
di Manlio Dinucci - Il Manifesto 25 febbraio 2011
A fuggire dalla Libia non sono solo famiglie che temono per la loro vita
e poveri immigrati da altri paesi nordafricani. Vi sono decine di
migliaia di altri «profughi» che vengono rimpatriati dai loro governi
con navi e aerei: sono soprattutto tecnici ed executive delle grandi
compagnie petrolifere. Non solo l’Eni, che realizza in Libia circa il
15% del suo fatturato, ma anche altre multinazionali soprattutto
europee: Bp, Royal Dutch Shell, Total, Basf, Statoil, Rapsol. Sono
costretti a lasciare la Libia anche centinaia di russi della Gazprom e
oltre 30mila cinesi di compagnie petrolifere e di costruzioni. Una
immagine emblematica di come l’economia libica sia interconnessa
all’economia globalizzata, dominata dalle multinazionali. Grazie alle
ricche riserve di petrolio e gas naturale, la Libia ha una bilancia
commerciale in attivo di 27 miliardi di dollari annui e un reddito pro
capitemedio-alto di 12mila dollari, sei volte maggiore di quello egiziano.
Nonostante le forti disparità, il livello medio di vita della
popolazione libica (appena 6,5 milioni di abitanti in confronto ai quasi
85 dell’Egitto) è quindi più alto di quello dell’Egitto e degli altri
paesi nordafricani. Lo testimonia il fatto che lavorano in Libia circa
un milione e mezzo di immigrati per lo più nordafricani. L’85% delle
esportazioni energetiche libiche è destinato all’Europa: al primo posto
l’Italia che ne assorbe il 37%, seguita da Germania, Francia e Cina.
L’Italia è al primo posto anche nelle importazioni libiche, seguita da
Cina, Turchia e Germania. Tale quadro ora salta in aria per effetto di
quella che si caratterizza non come una rivolta di masse impoverite,
tipo le ribellioni in Egitto e Tunisia, ma come una vera e propria
guerra civile, dovuta a una spaccatura nel gruppo dirigente. Chi ha
fatto la primamossa ha sfruttato il malcontento contro il clan di
Gheddafi, diffuso soprattutto fra le popolazioni della Cirenaica e i
giovani nelle città, nel momento in cui l’intero Nord Africa è percorso
da moti di ribellione.
A differenza che in Egitto e Tunisia, però, l’insurrezione libica appare
preordinata e organizzata. Emblematiche sono le reazioni in campo
internazionale. Pechino si è detta estremamente preoccupata degli
sviluppi in Libia e ha auspicato «un rapido ritorno alla stabilità e
normalità». Il perché è chiaro: il commercio cino-libico è in forte
crescita (circa il 30% solo nel 2010), ma ora la Cina vede messo in
gioco l’intero assetto dei rapporti economici con la Libia da cui
importa crescenti quantità di petrolio. Analoga la posizione di Mosca.
Di segno diametralmente opposto, invece, quella di Washington: il
presidente Obama, che di fronte alla crisi egiziana aveva minimizzato la
repressione scatenata da Mubarak e premuto per una «ordinata e pacifica
transizione», condanna senza mezzi termini il governo libico e annuncia
di aver approntato «la gamma completa di opzioni che abbiamo per
rispondere a questa crisi», comprese «le azioni che possiamo
intraprendere e quelle che coordineremo con i nostri alleati attraverso
istituzioni multilaterali».
Il messaggio è chiaro: vi è la possibilità di un intervento militare
Usa/Nato in Libia, formalmente per fermare il bagno di sangue.
Altrettanto chiare sono le ragioni reali: rovesciato Gheddafi, gli Stati
uniti potrebbero rovesciare l’intero quadro dei rapporti economici della
Libia, aprendo la strada alle loro multinazionali, finora quasi del
tutto escluse dallo sfruttamento delle riserve energetiche libiche. Gli
Stati uniti potrebbero così controllare il rubinetto energetico, da cui
dipende in gran parte l’Europa e si approvvigiona anche la Cina. Ciò
avviene nel grande gioco della spartizione delle risorse africane, che
vede un crescente braccio di ferro soprattutto tra Cina e Stati uniti.
La potenza asiatica in ascesa – presente in Africa con circa 5 milioni
di manager, tecnici e operai – costruisce industrie e infrastrutture, in
cambio di petrolio e altre materie prime. Gli Stati uniti, che non
possono competere su questo piano, fanno leva sulle forze armate dei
principali paesi africani, che addestrano attraverso il Comando Africa
(AfriCom), principale loro strumento di penetrazione nel continente.
Entra ora in gioco anche la Nato, che sta per concludere un trattato di
partnership militare con l’Unione africana, di cui fanno parte 53 paesi.
Il quartier generale della partnership Nato-Unione africana è già in
costruzione a Addis Abeba: una modernissima struttura, finanziata con 27
milioni di euro dalla Germania, battezzata «Edificio della pace e
sicurezza».