Andrea Onori è un giovane giornalista con cui ho spesso avuto contatti.
Ha scritto questo pezzo e mi ha chiesto di divulgarlo. Lo faccio  
volentieri
anche per l'argomento che tratta. Chiedo a tutti voi di fare  
altrettanto.
Grazie con affetto.
Ilaria Sabbatini
Angela racconta cosa significa vivere in un lager di stato
Le persone che conoscono direttamente i Cie (centri di identificazione  
ed espulsione) e non si esprimono per sentito dire, hanno imparato che  
non sono luoghi dove poter fantasticare a occhi aperti. Anzi, sanno  
benissimo che sono posti dove i sogni vengono spezzati e dove si puo’  
incontrare una delle più crudeli realtà del XXI secolo. E’ un accumulo  
di esseri umani, gettati in una fogna, dove ogni diritto è sospeso.
Lo sa benissimo Miguel, che afflitto dalla disperazione, ingoia due  
pile e della candeggina. Non riesce a sopportare di sottovivere in  
prigione, senza aver commesso nessun reato. Compie un atto estremo e  
spera che qualcuno si accorga di lui, della sua storia, delle sue  
aspirazioni spezzate.
Eppure, le istituzioni chiamano “ospiti” le persone che entrano  
all’interno di questi centri. Qualcuno si sorprende quando vengono  
chiamati Lager di stato. Qualcun’altro non resta turbato quando viene  
a conoscenza di storie raccapriccianti, perché sa cosa succede  
all’interno di quelle celle e qualcun altro ancora, è indifferente e  
accetta quel che può subire una persona colpevole di non avere un  
documento a portata di mano.
Succede che più conosci quella realtà e più scopri racconti  
incredibili e persone che vogliono narrare le loro esperienze dirette,  
vissute da protagoniste all’interno di quelle gabbie. Ci sono i  
migranti reclusi (come Miguel, Adel, Elham, Joy ecc) che ti implorano  
a scrivere e raccontare di loro. Ma ci sono anche gli operatori spesso  
andati via dal centro disumano e che vogliono raccontare le atrocità  
subite dai migranti.
NON GRADITA A PONTE GALERIA
Molte volte gli operatori che lavorano nei vari Cie d’Italia mi  
chiedono di mantenere segreta la loro identità per paura di perdere il  
posto di lavoro o per il timore di essere perseguitati. Questa volta,  
ci sono Nomi e cognomi. “Puoi fare tranquillamente il mio nome e anche  
il cognome se vuoi, io dico solo la verità” dice Angela, quando gli  
chiedo se vuole che la sua identità venga svelata.
Angela Bernardini, ha lavorato nel Lager romano di Ponte Galeria con  
la CRI dal 1998 al 1999, con varie mansioni: segreteria, logistica,  
ambulatorio. Come un fiume in piena mi ha raccontato ciò che succedeva  
all’interno di quel centro disumano sempre esaurito e stracolmo di  
persone.
“All'epoca - racconta Angela Bernardini - non esistevano nè regole, nè  
tanto meno diritti, almeno non codificati da un regolamento. I reclusi  
andavano a fortuna, secondo chi era di turno nei vari settori di  
competenza o delle forze dell’ordine”. Vi era una estrema difficoltà  
ad avere colloqui con gli avvocati e con i familiari. Tutto ciò che  
avevano, quando venivano portati al centro, era sequestrato e  
custodito in alcune cassette. “Non so se quando uscivano i militari  
ridavano loro esattamente ciò che avevano all'inizio della detenzione”  
dice l’ex operatrice di Ponte Galeria.
“Ho sempre cercato la vicinanza umana con i detenuti, volevo conoscere  
le loro storie, sapere della loro vita, aiutarli a restare persone”,  
perché spesso come mi hanno raccontato molti ragazzi reclusi in un  
Cie, è difficile restare se stessi, quando esci da quell’inferno  
cambi. “Io voglio restare me stesso, spero di farcela” mi diceva  
Miguel prima di essere espulso.
“Mi ero conquistata la loro fiducia ed il loro rispetto”, tanto che in  
un’occasione, Angela, è riuscita ad impedire una rivolta e in un’altra  
addirittura volevano fare lo sciopero della fame per lei. Era accaduto  
che in mensa un detenuto, “forse impazzito per davvero o forse per  
finta, mi ha mollato un cazzotto sulla fronte”, lasciando Angela  
stordita e dolorante. “Questo poveraccio – racconta l’ex volontaria  
della CRI - successivamente è stato massacrato di botte dai  
poliziotti, malgrado i miei tentativi di impedirlo”. Secondo Angela a  
condurre il pestaggio fu Massimo Pigozzi, che è uno dei tanti che  
parteciparono al pestaggio di Bolzaneto, durante il g8 del 2001,  
secondo le indagini condotte avrebbe dilaniato una mano ad un ragazzo,  
divaricando le dita fino a quando la pelle si è lacerata. Secondo le  
agenzie di stampa, Picozzi è stato accusato anche di aver violentato  
nel 2005 alcune prostitute romene nella camera di sicurezza della  
Questura di Genova.
E per precauzione, il comandante aveva deciso che per un pò Angela non  
entrasse in contatto con gli “ospiti” e proprio per questo motivo, i  
detenuti, “si sono rifiutati di andare alla mensa se non ci fossi  
stata io”
ABUSI E LE VIOLENZE SNERVANTI
Era scomoda Angela, troppo umana per il potere che cinicamente deve  
dettare legge e impedire che uscissero fuori le vicende. La sua  
"confidenza" non piaceva nè ai responsabili della CRI, nè a quelli  
delle forze dell’ordine. “Mi spiavano, mi controllavano, mi seguivano  
per vedere se passavo loro droga o facevo favori sessuali”. Forse  
anche per trovare un pretesto e poi chiedere il suo silenzio  
ricattandola, chissà.
Ma ad abusare sessualmente delle detenute erano altri racconta Angela:  
“ So che alcuni militari, e anche qualche volontario, in cambio di  
sigarette e schede telefoniche avevano rapporti sessuali con viados e  
prostitute”. Spesso, all’interno del centro, si trovavano preservativi  
usati che certamente i detenuti non potevano avere con se, “come non  
erano certo i detenuti a far entrare la droga. Io stessa ho tirato  
fuori da un bagno un ragazzo in overdose”. C’era sempre qualcuno che  
abusava della loro debolezza e chi pagavano erano sempre le donne, con  
le “normali” prestazioni sessuali.
Angela comprava le sigarette ai detenuti, ma senza chiedere nulla in  
cambio. “A volte non potevo dar loro il cambio della biancheria  
intima”, entravano e uscivano praticamente sempre con quello che  
avevano addosso al momento del fermo. “Chi protestava veniva sedato,  
spesso con le botte e messo in isolamento in una stanza priva di tutto
”.
Un giorno, Angela accompagna con l’ambulanza all'ospedale San Camillo  
un ragazzo che aveva dei gravi problemi di autolesionismo. “Io riuscii  
a convincerlo ed entrai in ambulanza con lui, malgrado non fossi di  
turno in ambulatorio”. Il ragazzo, aveva una lametta nascosta in bocca  
e avrebbe potuto fare del male a se stesso e ad Angela, ma con calma  
l’ex operatrice, cercò di farsi dare la lametta dal detenuto. Al  
rientro al CPT, “mi beccai una grande lavata di testa dal comandante e  
dopo due giorni, ricevetti una telefonata dal responsabile del mio  
gruppo, che mi diceva che non dovevo più presentarmi al Centro, perchè  
non gradita”.
Sono seguiti giorni da incubo, “ho cercato di parlare con tutti i  
vertici della CRI, ma non ci sono riuscita. Mi avevano creato intorno  
un muro impenetrabile. Alla fine, mi hanno costretto ad andarmene, in  
quanto sottoposta ad un mobbing continuo”.
FACCETTA NERA
Un giorno, uno come tanti, verso l’ora di pranzo, Angela racconta che  
mentre alcuni internati uscivano dalla sala mensa, altri invece si  
erano intrattenuti ai tavoli per scambiare qualche parola tra loro.  
Improvvisamente, "dagli altoparlanti presenti nella sala, si sono  
diffuse ad alto volume, le note di Faccetta nera”. Tra il poco stupore  
degli ospiti, “che quasi certamente non conoscevano quella marcetta” e  
lo sconcerto tra i volontari in servizio, le note ad alto volume  
continuavano a cantare tra le risate dei militari.
Angela, chiese dove fosse la centrale che governava gli altoparlanti,  
e “mi è stato risposto che era il posto di polizia, sito al secondo  
cancello di ingresso, quello che conduceva fisicamente dentro il corpo  
vivo del lager”.
Senza pensarci due volte, Angela si è precipitata verso il posto di  
polizia: “c’era un poliziotto con davanti a sè un mangianastri e la  
custodia di una cassetta dal titolo inequivocabile: Inni e canti del  
Ventennio”. Angela chiese al giovane poliziotto se si rendeva conto di  
quello che stava facendo, “non solo offendeva i reclusi, ma stava  
commettendo anche il reato di apologia di fascismo”.
Incurante di tutto ciò e del potere conferitogli dallo Stato, sorrise  
e in maniera ironica “ha preso la cassetta dal mangianastri, l’ha  
riposta e ne ha presa un’altra, dicendomi: ma io stavo mettendo  
Baglioni”. Con coraggio Angela fece rapporto al funzionario di PS  
responsabile e il poliziotto fu successivamente allontanato dal CPT,  
ma “per molto tempo sono stata guardata malissimo da tutti i vari  
addetti delle forze dell'ordine”.
Oggi, al Cie di Ponte Galeria non c’è più la CRI, ma la Cooperativa  
auxilium. “Da quello che leggo, non mi pare che le cose siano  
migliorate". E effettivamente non lo sono davvero. "Stare a Ponte  
Galeria mi ha cambiato per sempre la vita” parola di Angela.
  Andrea onori
http://onoriandrea.blogspot.com/2010/08/angela-racconta-cosa-significa-vivere.html