[NuovoLab] *SPAM* Mettiamo al bando la parola clandestino

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Author: Mgow
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To: forumgenova@inventati.org
Subject: [NuovoLab] *SPAM* Mettiamo al bando la parola clandestino
*Mai più clandestino.
*http://it.peacereporter.net/articolo/12702/Mai+pi%26ugrave%3B+%27clandestino%27
*L'agenzia DireS, da oggi, mette al bando questa parola dai propri dispacci
*
Da oggi, 10 novembre, la parola "clandestino", riferita a persone
immigrate, non comparirà più nei lanci dell'agenzia DiReS, nata un anno
fa dalla collaborazione di Dire con Redattore Sociale.La parola verrà
evitata anche nelle trascrizioni delle interviste, a meno che il termine
non serva per chiarire il pensiero di qualcuno. In quel caso, però,
verrà riportata tra virgolette. Come sinonimo il giornalista potrà usare
"irregolare", "migrante", "richiedente asilo" a seconda dei casi, fino
ai più generici, "persona", "lavoratore", "donna", "uomo". Anche
l'espressione "extracomunitario" dovrà essere usata con parsimonia, a
meno che non si intendano chiarire degli aspetto giuridico-legali
dell'immigrazione.

*Come siete arrivati a questa decisione?*
"L'idea ci è venuta alcuni mesi fa - spiega al telefono con
PeaceReporter Stefano Trasatti, direttore di Redattore Sociale - quando
si è incominciato a parlare del reato di clandestinità e ad usare questa
parola in modo molto negativo e pervasivo, quasi fosse un sinonimo di
persona immigrata. Nello stesso periodo anche il gruppo "Giornalisti
contro il razzismo", cui aderiamo, stava promuovendo una riflessione
sull'impiego delle parole nella stampa. Perchè "clandestino", nel suo
significato etimologico, è qualcuno che non paga il biglietto su una
nave, per esempio, ma non può essere in alcun modo un termine che
connota una condizione umana. Eppure ci siamo resi conto che
l'espressione era così consolidata fra di noi che se ne era perso il
significato reale e che veniva usata quasi sempre in modo improprio.
Così abbiamo deciso, dopo una non breve riflessione, che se volevamo
dare avvio ad un cambiamento, avremmo dovuto cominciare proprio noi
agenzie, che siamo il punto di partenza dell'informazione".
*Crede che il vostro esempio verrà seguito? *
"Certo, qualcuno alzerà il sopracciglio, considerandola un' iniziativa
da sognatori. Del resto ne' io, nè Giuseppe Pace, direttore di Dire, ci
illudiamo che il cambiamento possa essere immediato, ma se fra
cinque-dieci anni la parola "clandestino" non verrà più usata
nell'accezione odierna, potremo rivendicare una parte di merito".
*Lei crede che i giornalisti abbiano la responsabilità delle parole che
usano?*
"Certamente, perchè usare un linguaggio appropriato significa cambiare
la percezione della realtà, e quindi l'atteggiamento delle persone che
entrano in contatto con questi fenomeni, di conseguenza, le politiche
che li governano. Il linguaggio usato per rappresentare certi
cambiamenti sociali è fondamentale, perchè questi vengano accettati
dalla società stessa. E noi giornalisti dobbiamo interrogarci tutti i
giorni su come presentiamo la realtà e avere una coscienza profonda
delle parole che adoperiamo. Senza però criminalizzare nessuno."
*Chiara Pracchi*

*Mettiamo al bando la parola clandestino
*http://it.peacereporter.net/articolo/12348/Mettiamo+al+bando+la+parola+clandestino
I giornalisti contro il razzismo, proseguono sul lavoro iniziato alcuni
mesi, e di cui PeaceReporter aveva dato conto, nell'opera della
sensibilizzazione, in primis, proprio degli stessi operatori
dell'informazione. Per questo hanno approntato *una campagna per la
messa al bando della parola 'clandestino' *e hanno pubblicato, fra gli
altri, un contributo molto interessante. L'Hebdromedario lo rirpopone ai
suoi lettori: è un articolo di Giuseppe Fasi, autore per derive Approdi
del libro: 'Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono'.

*CLANDESTINITA' - di Giuseppe Faso*
Quando si passa dalle ipocrisie giustificate dalle convenienze sociali
al linguaggio diretto,qualcosa si guadagna (in chiarezza) e altro si
perde (in contegno, come lo intendeva Goffman).Si osservi l'evoluzione
dell'uso di "clandestino". Pochi mesi fa, con ipocrisia, i
governantiparlavano di "lotta alla clandestinità" -- e conducevano una
lotta, non sempre blanda, contro singole persone chiamate "clandestini";
oggi si proclama direttamente la "lotta al clandestino", da quella
istituzionale (il "clandestino" come reo) a quella socio-criminale
(l'aggressione per strada, il pogrom), tra loro unite profondamente e
separate in superficie da pochi anelli di una catena: il razzismo eretto
a sistema.

Chi si oppone debolmente, sembra destinato non solo a debacles e
ritirate locali, ma a una sconfitta epocale. Uno dei motivi principali
sembra risiedere nella scelta di opporsi alla "clandestinità come
reato", ripetendo, dell'avversario, una categorizzazione e così
confermandola. Perché non ci si oppone, come in Francia o in Spagna,
alla "mancanza di documenti come reato"? Sans-papiers, sin-papeles:
perché "clandestini"?
L'analisi che qui si conduce sulle quotidiane parole che escludono non
vive a stampa. Conduco esercizi di spiazzamento, semplici e spesso
efficaci. Chiedo alle persone di cercare di ricordare cosa dicevano, sei
anni fa, invece che "badante", quindici anni fa, invece che "etnico",
vent'anni fa,invece che "culturale". Sfogliamo insieme giornali di
allora, consultiamo banchedati. Spesso la prima reazione è paranoica,
poco plausibile ("ho sempre detto così"), e la resistenza alle
successive evidenze patetica - segno di un peggioramento del clima
civile, dovuto soprattutto a chi, avendo accesso ai media, da
intellettuale o politico inquina quotidianamente il linguaggio del senso
comune. Talora invece l'onestà intellettuale dell'interlocutore produce
in lui vere sofferenze.

Così è accaduto a un ex-sindaco, sul termine "clandestino". Gli ho
chiesto come li pensava, lui, i senza documenti, quando nel '90 o nel
'95 li aiutava nella ricerca delle "prove" della loro presenza, per
potersi regolarizzare; o quando, nell'ottobre dell'89, la giunta da lui
presieduta concedeva un piccolo contributo a un pullman di sans-papieres
in partenza per la manifestazione nazionale antirazzista (e per
l'apertura di una sanatoria) dopo l'uccisione di Jerry Masslo. La
coscienza esatta del linguaggio di allora ("li chiamavamo immigrati,
semplicemente") e della diffusione successiva del termine "clandestino"
lo ha sbigottito. Balbettava. Anche perché ha
misurato il cambiamento avvenuto dentro di sé: "se dico clandestino
indico qualcuno che ha fatto qualcosa di male". Clam-die-stinus,
infatti, significa "che si nasconde di giorno". Per due motivi: o perché
agisce contro precisi decreti (come attestato fin prima del 1600 in
Bernardo Davanzati) oppure perché si è imbarcato di nascosto in una nave
o in un aereo, come indicava un dizionario già nel 1950. Più tardi, un
bel romanzo di Mario Tobino ci ricordò che "clandestino" era anche il
gruppo di antifascisti viareggini che presero le armi contro i tedeschi
(rischiando la vita contro precisi decreti).

Raffigurare in questo modo chi è senza documenti è malvagio, e copre la
volontà perversa a costringerlo a star nascosto, nei cantieri, nelle
cucine dei ristoranti, nelle case di chi ha anziani da assistere.
Nascosto, impaurito, ricattabile. Senza carte e senza diritti. Per
lottare contro un'ulteriore ferita alla dignità delle istituzioni e
della società, bisogna chiedere il riconoscimento immediato dei diritti,
la "concessione" delle carte, e ricordare che la loro mancanza
(un'infrazione amministrativa) è dovuta alla miopia di uno stato le cui
classi dirigenti poi si meravigliano di criminali raid razzisti (ma non
li perseguono, come a Ponticelli).Ma è urgente anche, e prima,
una campagna che metta al bando la parola "clandestino". Per fare
chiarezza: chi continuerà a usarla sarà per lo meno un pusillanime.