[Lecce-sf] sull'identità comunista

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Author: gaetanobucci\@libero\.it
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To: forumlecce
Subject: [Lecce-sf] sull'identità comunista
L’IDENTITA’ DEL PRC SI COSTRUSCE NELLE LOTTA. FINIAMOLA CON LE DISCUSSIONI SURREALI

I compagni, che insistono a riproporre stancamente e artificiosamente la necessità del superamento dell’identità comunista, lo fanno, come ancor una volta emerge dall’intervento della Gagliardi su Liberazione del 4 novembre, sulla base di una subdola operazione di mistificazione,nella quale l’identità politica di un partito viene contrabbandata per identità ideologica tout court. Come se un partito politico fosse un club di filosofi o di custodi dell’ideologia. Come se fossimo fermi a 80 anni fa, all’epoca dei rivoluzionari di professione.
Ora, non voglio qui scomodare Gramsci e la sua concezione del partito come intellettuale collettivo e come artefice della costruzione del blocco storico tra operai contadini e intellettuali, concezione in tal modo superava i limiti operaistici del partito socialista del tempo (altro che minoritarismo identitario!); né Togliatti e la svolta di Salerno con la teorizzazione del partito nazionale e di massa; e neanche Rosa Luxemburg e la sua critica alla dirigenza sovietica sulla mutuazione, seppur in modo rovesciato, dei meccanismi di potere borghese.
E’ almeno dall’epoca del lancio della politica dell’unità resistenziale antifascista che la politica della maggioranza dei partiti comunisti si lega alle specificità nazionali e alla costruzione di ampli fronti sociali e politici per una politica di trasformazione. In Italia, in particolare, il gruppo dirigente del Pci, con una operazione di grande intelligenza e lungimiranza politica, svincola l’adesione al partito dall’identificazione con una filosofia e una catechesi ideologica. L’adesione al partito è adesione a un programma politico, potremmo dire a “un movimento reale che cambia lo stato di cose presente”. Il comunismo non è più un’idea statica cui piegare la realtà, ma l’orizzonte che indica un percorso le cui tappe sono determinate dalla complessità e dalla varietà delle vicende di classe. Come diceva Togliatti, “i comunisti devono saper aderire a tutte le pieghe della società, pur tenendo fermi i propri principi”. Fu così che si costruì un partito i cui voti venivano in gran parte dal mondo cattolico (non dimentichiamo che, dopo la Dc, il Pci fu il partito più votato dai cattolici), un partito che giunse a contare fino a due milioni di iscritti. Le centinaia di migliaia di operai del nord e di braccianti del sud che aderivano al Pci, lo facevano dopo aver partecipato agli scioperi e alle occupazioni delle terre, e non dopo aver superato un improbabile esame di marxismo-leninismo.
L’identità, dunque, non è qualcosa di immobile, pietrificato; ma la dinamica risultanza della lotta politica e delle specifiche esperienze concrete. In questo contesto, lo stesso termine “comunismo” (o “comunista”) a un significato dinamico, sempre più ricco, molteplice, capace di comprendere in sé tutte le esperienze e le nuove tematiche, a patto di esserne dentro, di viverle ed agirle come proprie.
Si obietta: ma il termine “comunismo” è stato snaturato dai disastri avvenuti nei paesi del socialismo reale. Ora, a parte il fatto – a proposito di terminologie – che la gran parte dei partiti comunisti dell’est non si chiamavano neppure comunisti (esempio: Partito socialista unificato in Germania est, Partito operaio unificato in Polonia, Partito socialista operaio in Ungheria, Partito del Lavoro in Albania, ecc.) e che quei regimi non si sono mai definiti comunisti, ma “Stati socialisti” o “democrazie popolari” (come si vede, sarebbero ben tante allora, se dovessimo stare alla logica dei nuovisti, le terminologie da mettere al bando); e, a parte il fatto che quei partiti erano esattamente la risultante di operazioni di fusione (proprio ciò che si chiede di fare a Rifondazione comunista) di vari soggetti politici, che comprendevano anche partiti socialisti, partiti popolari, ecc.; a parte tutto questo, dicevo, forse che il termine “cristiano” o il termine “liberale” o financo il termine “democratico” non siano anch’essi legati a pagine di storia che narrano spesso di delitti, guerre, genocidi e vergogne di ogni tipo?
Non abbiamo nulla, nel nostro passato, da lasciarci alle spalle, oltre a quello che, in tal senso, è stato già fatto.
Nella concreta esperienza di questo paese, la lotta sociale e ogni ipotesi di un’alternativa di società si è espressa sotto i nomi, i simboli e le bandiere del movimento comunista. Anche quando si sono manifestate aldifuori o anche in contrasto con la politica del Pci, esse hanno, sempre e comunque, fatto propri quei nomi, quei simboli e quelle bandiere. La realtà non si può interpretare e accomodare a proprio piacimento. Anche le nuove questioni poste dal femminismo e dall’ambientalismo, a differenza di quanto avvenuto altrove, sono stati totalmente assunte a pieno titolo dentro il processo della rifondazione comunista. Tanto che proprio qui, in questo processo di innovazione politica e teorica, si è prodotta una delle innovazioni più rivoluzionarie del nostro partito, fino a considerare come costitutive di un nuovo pensiero comunista e marxista tanto la contraddizione capitale-lavoro, quanto le contraddizioni uomo-donna e uomo-natura. Abbiamo imparato a declinare al plurale le parole della nostra politica. E, si badi bene, abbiamo compiuto queste svolte così profonde quali unici nel panorama politico italiano. E ciò non a dispetto; al contrario, proprio grazie al nostro essere comunisti, al nostro essere rivoluzionari. Il marxismo non ci ha ostato; ci ha stimolato.
Si è dovuti forse uscire dalla nostra storia, abbiamo dovuto compiere delle abiure, abbiamo dovuto cambiare riferimenti politici e ideali per realizzare tutto questo? No, non lo abbiamo fatto. E non lo abbiamo fatto nella motivata consapevolezza che tutte le volte che si sono intese le svolte come una necessità di fuoriuscita, si è finiti ineluttabilmente per approdare sui lidi del moderatismo.
E quell’approdo non è dovuto al caso, non a una qualche maledizione, non a imperizie soggettive. No. E’ tutto iscritto nella storia di questo paese. E nessun marxista può permettersi il lusso di prescindere dall’esperienza storica concreta. C’è una peculiarità nella storia di questo paese: il riformismo, quello vero, quello che una volta si significava con l’espressione “riforme di struttura” ; direi: la stessa rivoluzione democratico-borghese, mai portata a compimento in modo autonomo dalla borghesia, che anzi l’ha spesso e volentieri contrastata; è stato, quel riformismo, una bandiera specifica dei comunisti e del movimento operaio. Se fuoriesci da questa storia, perdi la bussola, la tua ragion d’essere, e regali all’avversario una prateria su cui scorazzare.
Le vicende economico-finanziarie di queste settimane, la crisi capitalistica globale, le mobilitazioni studentesche e popolari, il riacutizzarsi dello scontro di classe rimettono ancor più all’ordine del giorno il tema del superamento del capitalismo. Il ruolo e l’azione, cui i comunisti sono chiamati, tornano centrali e assolutamente non surrogabili dal ruolo e dall’azione, per quanto utili e importanti, di un generica sinistra. La nostra adamantina determinazione nel continuare ad essere e a dirci comunisti è oggi non solo storicamente motivata, ma storicamente necessaria.
E’ per questo che mi appare del tutto strumentale, fuorviante, pretestuosa ed estemporanea questa discussione che alcuni compagni persistono a protrarre su una presunta necessità di superare Rifondazione comunista.
Da dove ha origine questa discussione? Chi l’ha posta all’ordine del giorno? Come mai questi compagni non l’hanno aperta quando erano loro a dirigere il partito? Ogni persona di buon senso, dopo la dèbacle elettorale dell’Arcobaleno, che da sola basterebbe a rendere ridicola qualsivoglia ipotesi di superamento del Prc, trarrebbe delle conclusioni diametralmente opposte a quelle che ci vengono giornalmente propinate da certi articoli di Liberazione.
Si dice: tutto è cambiato; anche noi dobbiamo tutto cambiare. Ma domandiamoci: chi è che ci chiede questo? Ce lo chiedono gli studenti in lotta? Non mi pare proprio, se è vero, com’è vero, che erano presenti in massa alla manifestazione dell’11 ottobre e non mi risulta che esprimessero disagio a sfilare tra migliaia di bandiere rosse. Ce lo chiedono, per caso, gli operai? Ce lo chiedono i nostri elettori, i nostri iscritti, i nostri simpatizzanti? Neanche per idea. Chi ce lo chiede, allora? Ce lo chiedono la Gagliardi, Migliore, Giordano, Mussi e Occhetto. Ecco chi ce lo chiede. Ce lo chiede semplicemente un ceto politico, che ha fallito e non ha la modestia di riconoscerlo. Un ceto politico che, privo di un futuro, escogita operazioni camaleontiche per tentare di tornare a galla. Un’operazione “ad usum delphini”, cui si vuol dare un’improbabile patina di dignità politica.
Un’ operazione, questa sì, prettamente ideologica, poichè priva di ogni necessario presupposto materiale, finalizzata a portare la sinistra dentro i confini delle compatibilità di sistema e subalterna alla strategia del Pd.
Malevolenze? Non proprio. Basta leggere l’intervista di Migliore, nella quale esalta la manifestazione del Pd del 25 ottobre, ma non ha nulla da dire su quella dell’11 ottobre. E dice ancora che occorre unificare l’opposizione. Sulla base di cosa? Che cosa è cambiato di così rilevante nella politica del Pd da indurci a immaginare un’unificazione dell’opposizione? Ci elenca per caso, Migliore, dei fatti concreti? No. Fa semplicemente un’operazione politicista, ineluttabilmente ideologica.
Ai dirigenti del mio partito dico: per cortesia, chiudete questa discussione e non rispondete più a sollecitazioni strumentali. Dopo l’esauriente e ineccepibile risposta di Ferrero su Liberazione, si consideri archiviata la faccenda. Se ci sono dei compagni appassionati a questo dibattito surreale, se lo facciano tra di loro.
Si vada avanti sulla linea legittimamente decisa al congresso di Chianciano. E si pensi e si parli solo delle lotte in atto e di quelle che ci attendono.
Faticosamente stiamo risalendo la china. Se a qualcuno ciò non va bene, se ne faccia una ragione.


CLAUDIO BUTTAZZO