[NuovoLab] Barbarie UNIVERSALE

Delete this message

Reply to this message
Author: ugo
Date:  
To: aderentiretecontrog8, forumgenova
Subject: [NuovoLab] Barbarie UNIVERSALE

L'uomo di Arcore è «solo» l'italica personificazione di un degrado mondiale.
La versione specifica di una caduta umana, da cui bisogna tentare d'uscire con
un «movimento dal basso» che diventi «fatto politico»

OLTRE L'OSSESSIONE DEL BERLUSCONISMO

articolo di Guido Viale

A cavallo tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, in Francia, il pensiero
radicale di sinistra aveva dato vita a una rivista dal titolo profetico
Socialisme ou barbarie. Mai analisi storica è stata più pregnante: il
socialismo non si è realizzato - e forse non avrebbe potuto realizzarsi mai -
ed è sopravvenuta la barbarie. Quella in cui tuttI noi, insieme all'intero
pianeta, siamo ormai immersi.
Come La lettera rubata di Poe, la barbarie è lì davanti ai nostri occhi; ma
proprio per questo non la vediamo; e quando qualcosa colpisce la nostra
attenzione, come i conflitti di interesse del presidente del Consiglio, la
pornografia eletta a sistema di selezione della classe di governo, la truffa
mondiale della Parmalat, l'invasione dell'immondizia, le tifoserie scatenate o
il razzismo della Lega, tendiamo ad attribuirla a una specificità nostrana,
come se il resto del pianeta fosse immune da cose simili o anche peggiori.
Invece, fatte le debite proporzioni, i conflitti di interesse che hanno portato
in Iraq e in Afghanistan Bush e i suoi accoliti fanno impallidire quelli di
Berlusconi (con l'aggravante che negli Stati uniti non c'è nemmeno una
magistratura che, nel bene o nel male, li abbia messi sotto accusa);
l'improvvisa ascesa di alcune soubrette al governo del nostro paese non sono
che una versione sporcacciona dell'ascesa che potrebbe portare un «pitbull con
il rossetto» a rovesciare un pronostico elettorale dato ormai per scontato; le
truffe perpetrate dal sistema finanziario degli Stati uniti giganteggiano di
fronte a quelle di Parmalat, Cirio, Banca di Lodi o Alitalia; la
spettacolarizzazione che trasforma in successi gaffe e flop interni e
internazionali di Berlusconi fanno scuola nel mondo. Infine violenza da stadio
e intolleranza antislamica («vadano a pregare e pisciare nel deserto» per
riprendere l'invito dell'ex-sindaco di Treviso) avevano già trovato una felice
sintesi nella trasformazione di una tifoseria nelle milizie che hanno poi
massacrato migliaia di cittadini islamici nella Bosnia di Arkan, Karadzic e
Mladic. Ceramente in Italia alcuni di questi fenomeni presentano caratteri
estremi e anticipatori; ma molti altri, ascrivibili alla medesima «temperie»,
cioè alla barbarie, registrano altrettanto considerevoli ritardi. Il fatto è
che con la globalizzazione «la Storia» ha ormai preso a procedere in ordine
sparso.
L'alibi italiano
L'antiberlusconismo, visto sotto questa luce, è stato e resta un alibi per
evitare di fare i conti con la realtà: continuiamo ad accreditare a uno degli
uomini più ridicoli della terra le doti di demiurgo che lui si attribuisce:
quasi fosse lui, insieme alla sua corte di azzeccagarbugli, «veline» e
trafficanti, e non viceversa, ad aver forgiato il carattere di quella
maggioranza che regolarmente lo vota, rivota e osanna; nonostante tutti i
fiaschi a cui è andato incontro e di cui ha già fornito ampie prove. E' lui,
invece, a essere lo specchio e il punto di convergenza non solo delle
aspirazioni, ma anche e soprattutto del modo di ragionare, di una moltitudine
che va ben al di là del recinto dei suoi fan, o degli elettori del
centrodestra; per abbracciare anche la parte preponderante di quel che sta alla
sua sinistra e, soprattutto, del ceto politico da cui essa dovrebbe essere
rappresentata.
Basta uscire dalla pista del circo a cui i media inchiodano giorno dopo giorno
il discorso politico (le diatribe tra maggioranza e «opposizione») per
imbattersi in una sostanziale identità di vedute: se non generale,
sufficientemente diffusa da rendere impraticabile l'enucleazione di una
qualsiasi alternativa. Si guardi, per esempio, al modo in cui l'universo mondo
politico ha acclamato Berlusconi per aver «risolto» il problema dei rifiuti in
Campania: in sostanza, facendo suoi i pochi risultati raggiunti dal governo
precedente (lo sgombero delle strade) e prescrivendo di ricoprire di discariche
l'intera regione, come se la Campania non ne avesse già ospitate abbastanza: di
lecite e non; portando peraltro al governo del paese e del suo partito uomini
oggi indicati come i referenti diretti della camorra casalese, regina
incontrastata della gestione criminale dei rifiuti; il tutto in attesa dei
mitici inceneritori, pagati «mettendo le mani nelle tasche» degli italiani con
la bolletta elettrica e su alcuni dei quali la camorra ha già messo le mani
prima ancora che vengano costruiti. E che comunque, come è successo a quello di
Acerra sotto il suo precedente governo, arriveranno tra molti anni, o forse
mai.
Questa incontestabile aura di successo, che non solo sfida, ma persino si
alimenta dei continui fiaschi totalizzati dai suoi governi - l'attuale e i
precedenti - sembra aver trovato una spiegazione, proposta e accolta da due
editorialisti di Repubblica, in una sorta di format in cui Berlusconi, anche
grazie al controllo dei media, è riuscito a imbrigliare il discorso politico:
le cose presentate come positive sono merito suo; i suoi fallimenti sono colpa
dell'opposizione o del precedente governo (cioè dei «comunisti»). Ma questa,
come molte altre spiegazioni simili, elude il problema centrale, che è quello
della barbarie: un problema che è sociale e culturale assai più che politico.
La grande resa pubblica
E' indubbio che i media, e soprattutto le sue cinque televisioni, che Prodi
non aveva nemmeno cercato di scalfire, hanno e hanno avuto un peso fondamentale
nel forgiare, ormai da un quarto di secolo, il carattere degli italiani.
Berlusconi ha insediato al potere una nomenclatura e imposto un controllo
dell'informazione da fare invidia al defunto potere sovietico. Vista sotto
questa luce, la riforma dell'istruzione è stata realizzata da tempo, ben prima
di quella, mai avviata, dell'ex ministro Moratti (Inglese, informatica e
impresa: nessuno ne parla più) o di quella dal ministro Gelmini (grembiulini,
cinque in condotta e 50 allievi per classe). Oggi la cultura degli italiani è
quella prodotta dalla Tv: che i giornali del giorno dopo non fanno che
ricalcare, e la scuola a subire, facendo come se la televisione non esistesse.
Perché nessun preside, nessun insegnante, nessuna sperimentazione ha gli
strumenti per confrontarsi con essa. E il ministero dell'istruzione non sarà
mai tale fino a quando non avrà accordato ai programmi scolastici - rivisti -
l'intero palinsesto, per lo meno della televisione pubblica.
Forse la barbarie sta proprio qui: nella resa della scuola, ma anche della
politica e del mondo della cultura, di fronte a questa trasmissione
unidirezionale di contenuti (o di non contenuti) culturali, perché sono venuti
meno strumenti e condizioni per costruire, prima ancora che per trasmettere,
una visione del mondo diversa, che si sottragga alla barbarie del presente:
anche solo qualche brandello di una o più concezioni alternative al «pensiero
unico» di cui è ormai impregnata la nostra vita quotidiana.
Come uscirne? Nessuno lo sa e se qualcuno crede di saperlo probabilmente è già
fuori strada. Molti si aspettano la salvezza da dio. Se a suggerire che «ormai
solo un dio può salvarci» era stato il più ateo dei filosofi del secolo scorso,
milioni di suoi inconsapevoli seguaci corrono oggi a frotte a ripararsi sotto
lo scudo della religione: di una delle tante religioni, non più percepite come
veicoli di un rapporto con il trascendente, quanto come legittimazione
identitaria della propria collocazione all'interno della barbarie generale. La
vicenda degli «atei devoti» è, da questo punto di vista, estremamente
esemplare. Quella dei «kamikaze» islamici, all'estremo opposto, anche.
Il fatto è che in un mondo di macerie, come quello prodotto dalle devastazioni
della barbarie imperante, le condizioni per costruire una nuova dimora, cioè
una diversa vivibilità, o una vivibilità tout court, debbono essere realizzate
a partire dalle fondamenta, con i materiali che quelle macerie ci mettono a
disposizione, e nei luoghi in cui già siamo o ci ritroviamo gettati. Ma che
cosa può essere mai questa nuova dimora? Può essere la rete di relazioni in cui
ciascuno di noi è inserito, adattata e trasformata per farne uno strumento di
verifica, di trasmissione, e poi di controllo delle proprie condizioni di
esistenza; in forme e modalità condivise. Troppo astratto? Certamente sì. Ma se
ne possono ricavarne alcune regole per orientarsi nel mare della barbarie
contemporanea.
«Piccole» vie d'uscita
Verifica, che vuol dire innanzitutto trasparenza. Ovunque il segreto, che sia
politico, militare, industriale o amministrativo, è il nemico principale della
verità; più di quanto lo sia la menzogna. Il solo limite legittimo che può - ma
non necessariamente deve - incontrare è dato dalla riservatezza sulla propria
vita personale.
Trasmissione, per dotarsi di mezzi propri con cui metterci in comunicazione
con gli altri. La tecnologia della rete ha creato l'illusione che questi mezzi
siano già a disposizione di tutti, o quasi. Ma non è così: c'è una dimensione
della vita associata che non passa e non passerà mai attraverso la «Rete». E'
la dimensione del contatto fisico, della verifica dello sguardo, del rapporto
con ciò che resta della natura, dell'organizzazione materiale dei nostri
spostamenti e dei nostri incontri, della necessità di non sottrarsi alle
difficoltà, alla fatica, all'imbarazzo, al lutto, al dolore che il mondo reale
impone e continuamente ripropone e che il mondo virtuale permette invece di
eludere con la semplice pressione di un tasto: ciò che continua a distinguere
irrevocabilmente, a dispetto di tante teorizzazioni, questi due universi. Prima
di crollare - per poi ricostituirsi sotto l'egida di una versione
particolarmente autoritaria del pensiero unico - l'universo sovietico era stato
minato dall'interno dal samizdat: una rete di elaborazione e di trasmissione
dell'informazione e del pensiero indipendente, veicolati attraverso contatti
personali e testi dattiloscritti progressivamente estesa a tutti gli angoli e a
tutti gli ambiti dell'impero. Oggi, di fronte alla «temperie culturale» imposta
dalla barbarie imperante, a tutti noi si ripropone la stessa sfida, anche se
gli strumenti di questa trasmissione non saranno più la macchina da scrivere e
la carta copiativa, ma il web o la fotocopiatrice.
Controllo, che vuol dire condivisione. Dall'alto si controlla per linee
gerarchiche; dal basso solo trovando un punto di incontro tra soggetti,
interessi, visioni e condizioni di partenza differenti. Per questo la
trasparenza è così importante: su questioni di comune interesse si possono
anche fare patti con il diavolo; a condizione di sapere chi è; e che tutti
sappiano quali patti e tra chi sono intercorsi. Più si amplia la gamma delle
differenze che concorrono al perseguimento di uno stesso obiettivo, più diventa
difficile per chiunque se ne mantenga estraneo sottrarsi a una verifica
pubblica delle proprie scelte. E' questa la molla che alimenta la voglia di
partecipazione: di costruire e far vivere sedi di consultazione e confronto tra
le parti in causa - i cosiddetti stakeholder - quali ambiti di elaborazione e
trasmissione di una cultura autonoma. Certo, prima che un processo del genere
arrivi a influenzare i centri di comando delle strutture, delle istituzioni e
dei meccanismi che governano il mondo la strada da percorrere è molto lunga. Ma
quella indicata non è una astratta procedura formale, ma un processo in cui
forma e contenuti procedono di pari passo: proprio quello che manca da tempo, e
sempre più, alle strutture della democrazia rappresentativa.

fonte : il manifesto del 09/10/08





ub



--------------------------------------------------
Non potendo rafforzare la giustizia si è giustificata la forza B. Pascal
--------------------------------------------------

Ugo Beiso