Author: Edoardo Magnone Date: To: Mailing list del Forum sociale di Genova Subject: [NuovoLab] "...e abbiate coscienza che state mangiando i vostri
lavoratori..."
"Astenetevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie!
Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami,
grappoli d'uva turgidi sulle viti.
Ci sono verdure deliziose, ce n'è di quelle che si possono rendere più
buone e più tenere con la cottura.
E nessuno vi proibisce il latte, e il miele che profuma di timo.
La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti
senza bisogno di uccisioni e sangue.
Con la carne placano la fame le bestie, ma neppure tutte: il cavallo e
le greggi e gli armenti vivono d'erba.
Sono le bestie d'indole cattiva e selvatica, le tigri d'Armenia e i
leoni iracondi e i lupi e gli orsi, a godere di cibi sanguinolenti.
Ah, che delitto enorme è cacciare visceri nei visceri, ingrassare il
corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di
un altro essere vivente!
In mezzo a tutta l'abbondanza di prodotti della Terra, la migliore di
tutte le madri, davvero non ti piace altro che masticare con dente
crudele povere carni piagate, facendo il verso col muso ai Ciclopi?
E solo distruggendo un altro potrai placare lo sfinimento di un ventre
vorace e vizioso? Eppure quell'antica età alla quale abbiamo dato il
nome di età dell'oro era felice dei frutti degli alberi, e delle erbe
che spuntano dal suolo, e non si lordava la bocca di sangue.
Allora gli uccelli battevano tranquilli le ali per l'aria e la lepre
girellava senza paura in mezzo ai prati, e il pesce non si ritrovava,
per la sua ingenuità, appeso all'amo.
Tutto era senza insidie, senza nessun inganno da temere, pieno di pace.
Ma poi uno sciagurato, chissà chi, invidioso dei vitto dei leoni,
cominciò a buttarsi nell'avida pancia cibi di carne, e aprì la via al
delitto.
All'inizio, credo, il ferro si macchiò e s'intiepidì di sangue di
bestie feroci: e ci si poteva fermare lì: ammazzare esseri che cercano
di uccidere noi non è, lo riconosco, un'empietà. Ma se bisognava
ammazzarli, banchettarci no!
Da lì lo scempio andò molto più oltre, e la prima vittima a meritarsi
la morte fu, si ritiene, il maiale, perché col tondo grugno
disseppelliva i semi soffiando i raccolti sperati.
Perché morsicava le viti, il capro, si dice, cominciò ad essere
immolato sugli altari di Bacco, per punizione.
Sia il maiale che il capro si rovinarono per colpa loro.
Ma che male avete fatto voi, pecore, placide bestie nate per far del
bene all'uomo, che portate un nèttare nelle poppe rigonfie, che ci
donate la vostra lana perché se ne facciano morbide vesti, e che ci
siete più utili vive che morte?
Che male ha fatto il bue, animale che non conosce frode né inganno,
innocuo, bonaccione, nato per sgobbare?
Ingrato, indegno perfino del dono delle messi colui che ebbe il
coraggio di macellare il suo aiutante appena liberato dal peso dei
curvo aratro, colui che troncò con la scure quel collo spellato dalla
fatica, grazie al quale tante volte aveva ripreparato il duro maggese
e immagazzinato raccolti.
E non ci si accontenta di commettere un simile delitto: si coinvolgono
nel crimine perfino gli dèi, con l'idea che le divinità del cielo
godrebbero dell'uccisione del laborioso giovenco.
La vittima senza macchia, la più bella (guai essere troppo belli!),
tutta adornata di bende e d'oro, è piazzata davanti all'altare e sente
ignara recitar preghiere e si vede sistemare sulla fronte, tra le
corna, i prodotti che essa stessa ha coltivato, e colpita tinge di
sangue il coltello di cui forse ha intravisto il balenio nell'acqua
limpida.
Subito esaminano i visceri estratti dal suo petto ancora vivo e li
scrutano per leggervi le intenzioni degli dèi.
E voi (tanta è dunque nell'uomo la fame di cibi vietati) osate
cibarvene, o stirpe mortale? Non fatelo, ve ne prego, ascoltate i miei
avvertimenti, e se comunque vi mettete in bocca membra di buoi
macellati, sappiate e abbiate coscienza che state mangiando i vostri
lavoratori..
OVIDIO
"Metamorfosi",
Libro quindicesimo,
ed. Einaudi,
trad. Piero Bernardini Margolla