Author: marku Date: To: movimento CC: cerchio Subject: [Cerchio] hanno voluto la guerra ora guerreggino contro se stessi
hanno trasformato il loro sogno di sicurezza in un incubo paranoico di terrore fatto di qualunquisti delatori e burocrati della demenza
immaginatevi il sistema come funzionerà nell'iatalietta del pressapochismo e della furbizia da quattro soldi
meglio, molto meglio il caos del mondo libero
LA STORIA. Il diario di un viaggio che si trasforma in odissea
Fazel, americano d'origine iraniana, accusato di terrorismo"
"Io, fotografo in ostaggio
delle paure americane"
DAL nostro inviato MARIO CALABRESI
L'otto agosto di quest'anno Ramak Fazel, 41 anni, cittadino americano di professione fotografo, ha cominciato un viaggio di tre mesi alla riscoperta del suo Paese, che presto si sarebbe trasformato in un'odissea nelle paure, nelle paranoie e nelle ansie più profonde dell'America di Bush.
"Sono partito da Fort Wayne, piccola città dell'Indiana dove sono cresciuto. Lì vive ancora mia madre. Sono nato in Iran, ma sono arrivato negli Stati Uniti a pochi mesi di vita, nell'inverno del 1965. Mio padre era un professore universitario di psicologia. Non andava d'accordo con lo scià per le sue idee liberali e non si capì neppure con i rivoluzionari di Khomeini, per lo stesso motivo. L'America ci accolse due volte e io e mia sorella, che è nata qui, ci siamo sempre sentiti cittadini degli Stati Uniti.
Ho deciso di visitare tutte le capitali degli Stati americani, in un viaggio di 25 mila chilometri cominciato nell'afa estiva, concluso battendo i piedi nel nevischio. L'idea mi è venuta - racconta, parlando con molta calma in un ristorante di Columbus, al termine della sua avventura - nel solaio di casa nei giorni di Pasqua. Ho ritrovato la vecchia collezione di francobolli. Una raccolta completa delle emissioni di tutti gli Stati americani dagli anni Venti agli anni Ottanta. Di un certo valore. Li ho amati molto e ho pensato di usarli come guida in quel viaggio che sognavo da anni attraverso gli States. Sono un fotografo professionista, lavoro da tempo in Italia. Ho scelto di fotografare i Capitol Buildings di ogni Stato, quei palazzi costruiti ad emulazione del Campidoglio di Washington. Rappresentano il potere, contengono i parlamenti statali e sono quasi tutti neoclassici con una grande cupola.
All'inizio dell'estate compro un van bianco, lo attrezzo per poterci dormire in caso di necessità e parto seguendo un percorso che mi faccia toccare 49 stati. Punto a occidente, tenendomi a nord. I paesaggi sono meravigliosi. Da ogni città spedisco cartoline agli amici utilizzando i francobolli della collezione e ne invio una anche all'ufficio postale della destinazione successiva, così da timbrare ogni tappa. Nel Missouri, il "cancello per l'Ovest", ci sono 40 gradi, non si respira. Pochi giorni e mi trovo davanti il paesaggio più straordinario, al confine tra Iowa e Nebraska. Ti lasci alle spalle le pianure coltivate per entrare nel West. Cambia la luce, la profondità del paesaggio, iniziano il deserto e le rocce. È l'America dei grandi spazi.
Alle Hawaii ci arrivo da Sacramento, capitale della California. Vicino a me è seduta una signora simpatica e curiosa, una casalinga cinquantenne. Vuole sapere del viaggio e della mia famiglia. La storia è lunga ma anche il volo, così le racconto del nonno paterno, ultimo di una dinastia di mercanti e carrovanieri del Golfo Persico che commerciavano con l'India. Si fermò a Bombay definitivamente negli anni Trenta, scegliendo di non fare il viaggio di ritorno. Lì nacque mio padre. Mia madre viene dal Caucaso, per metà azera e per metà armena. Si sono conosciuti a Teheran e io sono nato ad Abadan nel sud dell'Iran. La signora vuole sapere se ci sono mai tornato. Le spiego che ho potuto farlo solo sei anni fa, e poi una seconda volta nel 2002, in tempo per rivedere mia nonna. Era quasi cieca, ma continuava a cucinare e passava il suo tempo a raccontarmi le ricette della cucina persiana. Poi le indico l'itinerario, parlo delle foto ai parlamenti. La sua curiosità non è mai soddisfatta. Ora vuole sapere cosa mi è piaciuto di più di Sacramento, la sua città. Sto per addormentarmi, le rispondo che mi ha incuriosito molto il grande Mall vicino all'aeroporto, che mi interessano tutti questi immensi centri commerciali. Mi chiede ancora il nome della rivista per cui lavoro, taglio corto e rispondo solo che è una rivista d'architettura. Poi vince il sonno e mi sveglio ad Honolulu, giusto il tempo per salutarla mentre scappa in fretta verso l'uscita.
Al ritorno sul Continente punto subito all'Arizona e al New Mexico. Ad Oklahoma City comincio ad avere la sensazione di essere seguito dalla polizia. I problemi iniziano ad Austin in Texas. La guardia del Capitol non ne vuole sapere delle mie foto: una discussione fastidiosa. Quattro sere dopo fermo il van in un parcheggio di Jackson, nel Mississippi. Vado nel retro e mi metto a studiare i francobolli, quando una luce accecante mi abbaglia. Da un megafono mi viene ordinato di uscire con le mani in alto. Sono circondato da quattro auto della polizia. Mi dicono di stendermi per terra. Vengo ammanettato e perquisito. Il furgone viene perquisito. "Il fucile non si trova", urlano. "Dove l'hai messo?". Entro nel panico. Cerco di spiegarmi. "Abbiamo la segnalazione di un arabo con un fucile". Non c'è nulla. Alla fine mi tolgono le manette: "Cammina. Vai via da qui. Subito".
Ad Atlanta, Georgia, vengo fermato all'ingresso del Capitol. "Come si chiama?". Mi presento e allungo un biglietto da visita, come si usa qui. I poliziotti mi chiedono di aspettare, telefonano, sento chiara una frase: "È lui". Mi autorizzano soltanto a fotografare il cortile. Capisco che c'è una segnalazione sul mio nome. La paranoia si è sposata con la mia faccia, che giorno dopo giorno scopro non essere americana: il mio volto diventa quello di un sospetto terrorista. Nei giorni mi è cresciuta un po' di barba, aiuta a dare corpo alle paure. La taglio subito.
Risalgo la costa atlantica, ad Annapolis capitale del Maryland, arrivo al Capitol alle nove del mattino. Presento la patente e aspetto. Una manciata di secondi e vengo sbattuto contro un muro: "Mani lontano dalle tasche", mi dice una donna con voce tremante. È in divisa ma sembra avere più paura di me. Forse pensano di avere a che fare con un terrorista. "Mettetemi le manette se questo vi fa stare più tranquilli". Lo fanno immediatamente e mi portano fuori. Percorriamo due isolati a piedi fino alla centrale. Sono ammanettato. Tutti mi guardano. Mi vergogno. Aspetto due ore. Poi il capo mi dice: "Mai avuto tante telefonate. Cosa sta succedendo, ma si può sapere chi diavolo è lei?" Da Baltimora arrivano due agenti federali, mostrano i tesserini dell'Fbi. Restiamo in silenzio. Sono sbigottito. Chissà chi pensano di aver arrestato. Un fotografo con un camioncino pieno di vecchi francobolli. Cominciano a farmi domande. Prima non capisco nulla. Poi riconosco la lingua di mia nonna. Stanno parlando in farsi. Gli dico che non parlo l'iraniano. Mi leggono i miei diritti. Chiedono se voglio nominare un avvocato.
"Ci racconti cosa è successo in Texas, ad Austin". "Ho chiesto il permesso per fare una foto e mi è stato detto di no in modo scortese. poi sono ripartito. Tutto qui". "Sei sicuro?". "Sì". "E non ti sei fermato poco dopo a fare un'altra cosa?". "No". "Dicci la verità. Raccontaci la telefonata che hai fatto dalla stazione di servizio". "Non ho fatto alcuna telefonata e poi ho il mio cellulare". "Io quando ero piccolo ho tirato l'allarme a scuola. Non mi rendevo conto che fosse grave, mi sembrava uno scherzo. Bene, poco dopo la tua partenza è arrivato un allarme bomba al Capitol. Capisci adesso? È meglio che dici la verità: l'hai fatta tu la telefonata di minaccia?". Resto in silenzio, calibro le parole: "Io non ero quel tipo di bambino e a scuola pensavo che quelli che tiravano l'allarme fossero degli idioti. Facevo altri giochi: preferivo collezionare francobolli. Ma se mi state accusando di aver provocato un allarme bomba allora vi chiedo di formalizzare l'accusa e voglio immediatamente un avvocato". Ora sono loro a rimanere in silenzio. Non formalizzano niente, ma comincia un controllo totale del camioncino: sono in venti tra Fbi e polizia. Controllano il mio diario, l'agenda, vagliano tutti i lavori e gli appuntamenti dell'ultimo anno. Poi ricomincia l'interrogatorio. Racconto dei francobolli e delle foto. Pensano che li prenda in giro. Mi salva un fax di Stefano Boeri, direttore della rivista Domus, che aveva deciso di sponsorizzare il progetto. Quattro ore dopo si arrendono: "Va bene, è una storia di francobolli e foto". Posso uscire da solo.
Sono pieno di umiliazione e di rabbia ma non voglio smettere. Se rinunciassi resterebbe una frattura insanabile. Decido di andare avanti. Da quel momento, ogni Stato viene avvisato. In tutto il Nord-Est mi aspettano già sull'autostrada. Arrivo in città, salgo le scale di un parlamento e mi seguono. Scelgo di presentarmi prima che mi fermino: "Sono Ramak Fazel, fotografo, posso entrare?". Mi chiedono di accomodarmi e cominciano le domande. Mi viene chiesto di spiegare da capo il motivo del mio viaggio, una volta, come è capitato a Charleston in West Virginia, mi parlano in tedesco e si fissano sul fatto che risultano miei viaggi in Germania, un'altra le domande si concentrano sulle macchine fotografiche, sui miei genitori, sull'Italia o perfino sugli occhiali. Sono miope, da qualche tempo ne indosso un paio di Dior anni Settanta, un modello trovato in un negozio di modernariato, sono spessi e colorati. A Trenton, in New Jersey, si trasformano: "Vorremmo che ci spiegasse perché porta occhiali militari". Questa volta non so se ridere o piangere: "No, guardi, Milano è la capitale della moda e anch'io sono un po' fashion victim". Mi guardano strano: niente foto.
Ogni volta devo parlare di tutti i viaggi che ho fatto, descrivo tutti i Paesi che ho visto e li annoio, solo quando vedo che non ne possono più cambio tono: "Vabbè, passiamo al Medio Oriente...". È l'unico momento divertente, scattano sulla sedia e ripartono le mille domande.
Ad Albany, capitale dello Stato di New York, gli agenti di guardia mi chiedono di aspettare all'ingresso l'arrivo di una coppia di colleghi in borghese. Uno dei due, un nero gigantesco, arriva da dietro, mi dà una potente pacca sulle spalle e esordisce: "Ormai sei una celebrità...". "Purtroppo sì, ma spero finisca presto". "No, intendevo in un altro senso: ho fatto una ricerca su Google e ho scoperto che pubblichi perfino in Giappone. Ragazzo, ma sei famoso! Fino a ieri eravamo in stato di massima allerta, poi questa mattina abbiamo ricevuto una telefonata che ha abbassato la tensione". Non ho mai saputo di chi e da dove.
Sul finale, la mia pazienza è quasi esaurita. In Pennsylvania, ad Harrisburg, sbotto: "Per favore, basta, ma i vostri colleghi non vi hanno comunicato niente?" "Sì, ma vorremmo farle anche noi alcune domande". Tiro fuori dal taschino della giacca il biglietto da visita dell'ufficiale dell'Fbi che mi ha interrogato per ore ad Annapolis: "Parlate con lui, mi conosce ormai meglio di mia madre". Mi raggiungono dopo mezz'ora: "Può andare, ci hanno detto cose bellissime su di lei".
A Frankfort, la capitale del Kentucky, quasi alla fine del viaggio, mi cade l'occhio su un foglio appoggiato sulla scrivania dai poliziotti che mi stanno interrogando nuovamente. Allegata c'è una foto. La riconosco. Sono io che dormo, la mia faccia appoggiata all'oblò di un aereo. Resto senza fiato. Capisco tutto. La signora di Sacramento. È stata lei. Mi ha segnalato e mi ha anche fotografato di nascosto durante il volo. Leggo la sua denuncia: racconta di un iraniano sospetto, che ha nel mirino i Parlamenti statali e i grandi centri commerciali. "Si presenta come fotografo ma quando gli ho chiesto per che rivista lavora ha farfugliato e non ha saputo rispondermi. Inoltre negli ultimi anni è stato più volte in Iran e in Europa". Ecco il canovaccio che ha fatto di me un sospetto terrorista. E poi sembrava troppo strano a tutti il significato del viaggio, questo è un itinerario che fanno solitamente i pensionati, sono loro l'unico pubblico che affolla i Capitol.
In Connecticut ho trovato una persona capace di riconciliarmi con il mio Paese. Il capitano della polizia mi aspettava sulla porta del Capitol, ha steso la mano verso di me e ha detto forte: "Benvenuto Mister Fazel". Abbiamo parlato di immagini e francobolli, suo padre era fotografo, mi aveva conosciuto attraverso Internet e ne era incuriosito. Prima che me ne andassi ha tirato fuori dalla tasca della giacca una bustina di carta leggera. "Questa mattina sono passato all'ufficio postale, ti ho comprato questi, sono sicuro che li capirai, che ne farai buon uso". Erano quattro francobolli da 39 cent, con una sola immagine: la statua della libertà. Sono gli unici che ho portato indietro. Spero porteranno fortuna a me e all'America, che ha bisogno di ritrovare se stessa.