[Forumlucca] Graziella Campagna uccisa due volte

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Author: Gabriele Focosi
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Subject: [Forumlucca] Graziella Campagna uccisa due volte
Graziella Campagna uccisa due volte

E' stata annullata per decorrenza dei termini di custodia cautelare
l'ordinanza emessa dalla corte d'assise di Messina a carico di Gerlando
Alberti iunior, nipote dell'omonimo boss palermitano, condannato
all'ergastolo nel dicembre del 2004 per l'omicidio della diciassettenne
Graziella Campagna, uccisa 21 anni fa a Villafranca Tirrena. Dal verdetto
sono trascorsi quasi due anni e i giudici non hanno ancora depositato le
motivazioni della sentenza, rendendo impossibile la fissazione del processo
di appello che avrebbe bloccato la decorrenza del cosiddetto termine di
fase di un anno e sei mesi previsto dalla legge tra i due gradi di giudizio
e trascorso il quale la custodia in carcere diventa illegittima.
Firmate l'appello lanciato dall'associazione Rita Atria sul sito
www.ritaatria.it dove è stata avviata una raccolta firme per chiedere al
Ministro di Grazia e Giustizia, On. Mastella, di formalizzare una ispezione
al tribunale di Messina e di applicare provvedimenti disciplinari a chi ha
permesso l'annullamento per decorrenza dei termini della custodia cautelare
a carico di Gerlando Alberti junior.

***

Per chi volesse saperne di più:

Vent'anni per lavare i panni sporchi
di Manuela Mareso [Fonte: NARCOMAFIE 12/2005)

Oggi Graziella avrebbe 37 anni. Forse un marito e dei bambini. Di sicuro
una famiglia numerosa – i genitori, quattro sorelle e tre fratelli con i
rispettivi coniugi e figli – cui dedicarsi. L’aveva sempre fatto, del
resto: poco più che adolescente, era sempre attenta alle esigenze dei suoi
cari; per la nipotina di tre mesi, poi, aveva un debole. Appena poteva,
libera dal lavoro, si occupava di lei e le confezionava piccoli indumenti.
Come quel maglioncino di lana che ancora oggi suo fratello Piero, padre di
quella bambina oggi ventenne, conserva. È rimasto a metà, perché una sera
che avrebbe dovuto essere come tante altre, trascorsa in famiglia a
sferruzzare dopo una giornata di lavoro in tintoria, Graziella non fece più
ritorno a casa.

La camicia dell’ingegnere. Originaria di Saponara (Me), Graziella scomparve
a Villafranca Tirrena, dopo essere uscita dal lavoro, la sera del 12
dicembre 1985. Il suo cadavere, barbaramente sfigurato da cinque colpi di
fucile a canna mozza, sarebbe stato ritrovato due giorni dopo a Forte
Campone, sui monti Peloritani, al confine tra Villafranca e Messina.
Dopo anni di indagini depistate, processi aggiustati e disinteresse da
parte dei grandi organi di informazione, l’11 dicembre 2004 (a diciannove
anni dall’accaduto) la Corte di Assise di Messina ha finalmente emesso una
sentenza contro i due esecutori dell’assassinio, Gerlando Alberti jr. e
Giovanni Sutera (condannati all’ergastolo), e contro Agata Cannistrà e
Franca Federico, rispettivamente collega e titolare della lavanderia presso
cui Graziella lavorava (condannate a due anni per favoreggiamento).
All’epoca dell’omicidio la lavanderia “La Regina” era frequentata da due
palermitani presentatisi come l’ingegner Toni Cannata e il geometra Gianni
Lombardo. In realtà si trattava, appunto, di Gerlando Alberti junior
(nipote di Gerlando Alberti senior, detto “’u paccarè”, braccio destro di
Pippo Calò) e Giovanni Sutera, due latitanti ricercati per associazione
mafiosa e narcotraffico internazionale, da tre anni nascosti nei pressi di
Villafranca. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Graziella è stata
uccisa perché, il 9 dicembre, aveva trovato in una camicia, lasciata in
tintoria a lavare, un documento dal quale si capiva che l’ingegner Cannata
aveva un’altra identità. Di quel documento, strappatole dalle mani dalla
collega Agata Cannistrà, a cui la ragazza l’aveva fatto vedere, non si è
più avuta traccia.

Non tutto è chiarito. «Quello che ci interessa è sì che siano condannati i
colpevoli, ma soprattutto che si porti alla luce il fitto reticolo di
connivenze a livello istituzionale che si nasconde dietro questo omicidio».
A parlare è Nadia Furnari, presidente dell’associazione antimafia “Rita
Atria”, che da dieci anni, in collaborazione con il Comitato per la pace e
il disarmo unilaterale di Messina e grazie alla dedizione e alla tenacia
dell’avvocato di parte civile Fabio Repici, sostiene la famiglia Campagna
nella ricerca di giustizia.
La vicenda di Graziella – sconcertante quando si pensa quale prezzo la
mafia costringa a pagare persone anche del tutto estranee agli affari
dell’organizzazione – presenta molti nodi irrisolti. Certo il suo omicidio
avvenne in un periodo caldissimo della storia di Cosa Nostra, e poteva
apparire marginale: erano gli anni delle stragi e degli omicidi eccellenti
(proprio nell’estate del 1985 erano stati uccisi Montana e Cassarà, vedi
«Narcomafie» 7-8/2005, nda.), e si era alla vigilia del maxiprocesso;
Messina, poi, era da sempre considerata – a torto – periferia di mafia e
non luogo strategico per i traffici di armi e droga e per il riciclaggio di
denaro sporco.
Ma la cronaca dei vent’anni in cui si è cercata la verità per l’omicidio
Campagna rivela fatti di una gravità inaudita. A partire dagli ostacoli
posti al fratello Piero, carabiniere all’epoca ventiduenne, mobilitatosi
immediatamente per far luce sull’accaduto e redarguito dai suoi superiori
per aver collaborato con i poliziotti della Squadra Mobile.

La verità era a un passo. «Che ci fossero delle collusioni a livello
istituzionale – ci racconta Piero – fu subito chiaro. Contrariamente alla
prassi istituzionale in casi analoghi, la Magistratura tolse la conduzione
delle indagini alla Polizia, giunta per prima sul luogo del delitto e che
aveva denunciato Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera già un mese dopo
l’omicidio di mia sorella, e la delegò al Nucleo Operativo dei Carabinieri
di Messina». Questi solo il 3 settembre del 1986, 8 mesi dopo rispetto alla
Polizia, e dopo molte resistenze, tra cui un tentato depistaggio per
omicidio passionale, arrivarono a redigere un rapporto contro Alberti e
Sutera. Fino ad allora i due erano comparsi nei loro verbali solo a seguito
di un fermo avvenuto quattro giorni prima dell’omicidio di Graziella: l’8
dicembre 1985 vennero infatti fermati a bordo di una Fiat Ritmo rubata a
Milano e il Cannata-Alberti, consegnando i documenti (falsi), cercò
insistentemente di tranquillizzare i militari dicendo di essere amico del
loro superiore, il maresciallo Carmelo Giardina. Approfittando poi di una
distrazione dei due Carabinieri, Alberti e Sutera fuggirono.

Infiltrati nell’Arma. «Pochi giorni dopo l’omicidio di mia sorella –
racconta ancora Piero Campagna –, fui invitato da alcuni poliziotti della
Squadra mobile a fornire ulteriori dettagli. L’auto della Polizia su cui
salii venne fermata dai Carabinieri e sorse una colluttazione giustificata
con l’accusa di imprecisate ingerenze investigative. Fui poi convocato in
caserma dal maresciallo Giardina e redarguito per aver fornito notizie alla
Polizia, e in seguito mandato dal comandante del Reparto operativo, il
maggiore Antonio Fortunato, che mi intimò di riferire ogni dettaglio a lui
solo o al maresciallo Giardina. Nella stanza era presente anche un’altra
persona, Giuseppe Donia, che mi venne presentata dal maggiore come proprio
collega e che mi rassicurò sullo scrupolo che avrebbero adottato nelle
indagini. Qualche giorno dopo, Donia mi confidò di essersi occupato
personalmente della perizia balistica». Anni dopo Piero Campagna avrebbe
incontrato Giuseppe Donia a Falcone, un paese in provincia di Messina, e
avrebbe appreso dai Carabinieri del luogo che in realtà non era affatto un
carabiniere, ma si spacciava come tale, e che era molto vicino a Gerlando
Alberti.
Il mandato di cattura, a seguito del rapporto dei Carabinieri del 3
settembre 1986, venne spiccato il 18 marzo dell’anno dopo dal giudice
istruttore Pasquale Rossi, che rinviò a giudizio Alberti e Sutera il 1°
marzo 1988. Ma il 13 febbraio 1990 il pm Giuseppe Gambino chiese e ottenne
(28 marzo) dal giudice istruttore Marcello Mondello il “non doversi
procedere” nei confronti dei due imputati per non aver commesso il fatto:
il movente dell’agendina-documento (tirato fuori per la prima volta a un
mese dall’omicidio dal barbiere di fiducia dell’Alberti – che vide
sussultare il latitante quando si rese conto di aver dimenticato il
documento nella camicia – e poi rinforzato dal ricordo della madre di
Graziella depositato quasi quattro anni dopo, nel maggio del 1989, che
raccontò che il 9 dicembre la figlia le disse: «Sai mamma che l’ingegner
Cannata non è lui?») viene giudicato troppo debole.

Caso riaperto, grazie alla tv. Da allora il silenzio, fino al 1996, quando
in una puntata della trasmissione televisiva Chi l’ha visto? Indagine viene
letta la richiesta di un’anonima professoressa di tornare a indagare
sull’omicidio. Contemporaneamente, grandi e piccoli pentiti della mafia
messinese iniziano a dire ciò che sanno sull’omicidio Campagna. Nove di
loro fanno i nomi di Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera, e spiegano
l’agghiacciante contesto mafioso in cui era stato deciso l’assassinio. «Dal
1992 al 1996 – dice l’avvocato Repici – i collaboratori di giustizia
interrogati a Messina erano stati un centinaio. A nessun magistrato era
venuto in mente di chiedere cosa sapessero dell’assassinio di Graziella,
che viste le modalità – cinque colpi di fucile a distanza ravvicinata – era
chiaramente di stampo mafioso».
Furono queste testimonianze dei pentiti a far sì che la Procura di Messina
richiedesse il 24 settembre 1996 la revoca della sentenza di
proscioglimento e la riapertura delle indagini preliminari. Il tribunale di
Messina riaprì il caso a dicembre. In realtà il processo avrebbe potuto
ricominciare due anni prima: già nel marzo del 1994 il pentito messinese
Salvatore Giorgianni aveva riferito al pm di Reggio Calabria Francesco
Mollace sia le responsabilità di Gerlando Alberti, sia l’intervento di
Santo Sfameni, un grande boss messinese con contatti in ambienti massonici,
per addomesticare l’esito del primo processo, che si concluse con il
proscioglimento degli imputati.
Ancora proroghe? Ma anche nella seconda metà degli anni Novanta molti
elementi facevano intravedere la rete di complicità e protezioni che
istituzioni dello Stato, imprenditori e politici avevano tessuto attorno
all’omicidio. Sollecitato dall’accurato e indefesso lavoro dell’avvocato
Repici, nel 2000 Nichi Vendola presentò un’interrogazione parlamentare. Nel
2001 Carlo Lucarelli, con una puntata dei suoi Misteri d’Italia, riportò i
riflettori su un omicidio ingiustamente dimenticato.
Oggi finalmente si è arrivati a una sentenza di primo grado che l’11
dicembre 2004 ha condannato gli imputati, ma le ombre sembrano non essere
svanite del tutto: a un anno dal suo pronunciamento, non è stato ancora
possibile averne le motivazioni (su queste «Narcomafie» tornerà appena
saranno disponibili). «Il termine di 90 giorni per il deposito delle
motivazioni, già prorogato una volta – spiega Fabio Repici – in realtà non
è perentorio. Mi hanno inoltre informato che il giudice a latere incaricato
della scrittura è sovraccarico di lavoro. Certo è curioso che del processo
Dell’Utri-Cinà, la cui sentenza era stata pronunciata negli stessi giorni –
e si trattava di un processo complicatissimo – le motivazioni si siano
avute già a luglio».