[Paesibaschiliberi] INTERVISTA ad Arnaldo Otegi, portavoce d…

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Author: Nicola LaTorre
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Subject: [Paesibaschiliberi] INTERVISTA ad Arnaldo Otegi, portavoce di BATASUNA
Dal quotidiano GARA del 31.03.2006

INTERVISTA ad Arnaldo Otegi, portavoce della Mesa
Nacional di Batasuna
«Questo è un processo di lotta»
·«Sarebbe un errore gigantesco persistere in una
strategia che persegue la perpetuazione del conflitto»

Il quotidiano GARA ha intervistato Arnaldo Otegi, che
ora si trova incarcerato in una prigione spagnola,
alcune ore dopo che ETA rendesse pubblica la sua
decisione di dichiarare un cessate il fuoco permanente
per promuovere un processo democratico in Euskal
Herria (Paese Basco, N.d.T.). Un processo che, come
rimarca Otegi, deve essere «di lavoro, di lotta, di
accumulazione di forze sul terreno sociale, popolare,
elettorale… perché nessuno ci regalerà nulla».
Considera che l’incarcerazione di dirigenti di
Batasuna è «un’ulteriore aggressione strutturale
contro la sinistra indipendentista» e che in questo
nuovo scenario «deve cessare immediatamente».

Questa intervista ad Arnaldo Otegi può essere letta
al passato, al presente ed al futuro; passato, perché
è stata fatta il pomeriggio di mercoledì 22 marzo;
presente, perché le riflessioni che riporta sono
pienamente vigenti, nonostante in queste ore Otegi
abbia trascorso la sua seconda notte nella prigione di
Soto del Real e futuro perché l’analisi punta
all’orizzonte: «Questa partita sarà lunga, con molti
tempi supplementari, ma la maggioranza è con noi».

­Innanzitutto, Arnaldo Otegi è portavoce di Batasuna.
Che responsabilità ha Batasuna nella decisione di ETA?

In quella che è la decisione di ETA, nessuna. La
responsabilità è nel lavoro che Batasuna ha svolto in
questi anni per generare condizioni che rendano
possibile questa decisione in un determinato momento.
È una decisione di ETA di una profondità politica
innegabile e che dà un contributo evidente alla
ricerca di soluzioni politiche. La nostra
responsabilità è sempre stata quella di creare le
condizioni che permetterebbero di iniziare un processo
di superamento del conflitto politico ed armato con
basi solide.

­Dunque, queste condizioni esistono già?

Da Anoeta (località nel cui velodromo Batasuna
presentò, il 14 novembre 2004, la sua proposta di
risoluzione, N.d.T.), noi abbiamo sempre detto che
esiste una reale opportunità di avviare questo
processo. Abbiamo fatto un’analisi corretta della
situazione: la crisi degli ambiti politici ha portato
quasi tutti alla certezza che il futuro deve essere
concordato a partire da altri parametri politici. Noi,
ad Anoeta, non abbiamo fatto che fornire un metodo per
questo. Questo è stato il merito della sinistra
indipendentista.

­Ma come va inteso questo gesto di ETA? È solo un
gesto di buona volontà oppure indica che vi sono già
delle solide basi concordate?

In attesa che ETA esponga chiaramente quali sono
state le ragioni che accenna nel suo comunicato, io
credo che abbia visto condizioni oggettive e
soggettive che permettono di avviare un processo
democratico. Un processo che si concluda con un grande
accordo che renda definitiva la risoluzione del
conflitto politico ed armato. Sarebbe un’iniziativa di
tregua permanente che non apre il processo, ma che si
somma agli ingenti sforzi fatti da settori popolari di
questo paese.

­Rodríguez Zapatero ha detto che si raccoglie ciò che
si semina. Le pare che abbia seminato?

Io credo che Zapatero abbia mantenuto un
atteggiamento che noi a volte abbiamo valutato
positivamente ed altre in maniera assolutamente
negativa. Il maggior passo che ha compiuto per creare
delle condizioni, è probabilmente la dichiarazione del
Congresso. Ma a seminare le condizioni, sono stati
fondamentalmente la sinistra indipendentista e tutti i
settori che hanno lottato in questo paese per
costruire questa opportunità. Conviene ricordarlo, ora
che tutti si appuntano medaglie e sembra che tutti
abbiano contribuito. A costruire questa opportunità
siamo stati noi, tutti gli uomini e tutte le donne
della sinistra indipendentista, la gente che ha
collaborato con noi nel Forum di Dibattito Nazionale,
coloro che stanno all’interno della strategia di
costruzione nazionale, coloro che sono impegnati nella
difesa dei prigionieri, noi che manifesteremo il 1°
aprile…

­Molti portavoce indicavano il cessate il fuoco come
quel «punto zero» a partire dal quale tutto deve
iniziare a girare. Cominciando da dove?

Secondo noi, questo è un errore. Il processo non
inizia il 24 marzo, era in gestazione da qualche mese.
Il futuro di questo processo dipende fondamentalmente
dal popolo basco e dal fatto che i soggetti politici,
sociali e sindacali che lo rappresentano siano capaci
di affrontare, una volta per tutte, in maniera
definitiva, uno scenario di pace stabile, giusta e
duratura per questo paese. Questo significa accettare
una regola di aritmetica democratica: che tutti
accettiamo ciò che decidono i baschi. Questo è il
grande contributo della sinistra indipendentista a
questa congiuntura politica. L’ultimo contributo è
stato la mobilitazione di Santurtzi e Portugalete
(località d’origine degli ultimi due prigionieri
politici baschi morti in carcere, N.d.T.) e la
giornata di sciopero e mobilitazione. Coloro che vi
hanno preso parte, sono quelli che più si sono
impegnati per questa opportunità e la si deve a loro.

­Ora entriamo in una fase di iniziative bilaterali e
non di gesti meramente unilaterali come accaduto
finora?

In questo momento iniziamo una tappa nella quale la
responsabilità esige che nessuno giochi carte in modo
unilaterale, ma che lo si faccia in maniera
concordata. Ciò che spetta a noi, è intensificare
ulteriormente il grado di relazione politica con le
altre formazioni ed avanzare nella costruzione di basi
solide e di un accordo che permetta di creare un
tavolo multipartitico, che metta in moto il processo.

­Questi contatti devono già essere pubblici?

Credo che attraverseremo ancora una fase nella quale
questi contatti si manterranno con una certa
discrezione. Fra l’altro, questa opportunità, è stata
possibile perché i contatti sono stati tenuti con una
certa discrezione da anni. Bisogna affrontare le cose
con una certa prudenza. Il livello di fiducia che si è
potuta dimostrare ed il fatto che dirigenti del PSOE
(Partito Socialista Operaio Spagnolo, N.d.T.) e della
sinistra indipendentista abbiano mantenuta aperta una
via di comunicazione al di là di congiunture
elettorali e di parte è, fra l’altro, ciò che ha reso
possibile tutto questo.

­Negli ultimi mesi, si è usata contro Batasuna quella
frase di Anoeta, che dice di «portare il conflitto
fuori dalle strade per portarlo al tavolo dei
negoziati». Come bisogna leggerla, oggi?

Come prima, negli stessi termini nei quali è stata
presentata. Questa frase, che dissi ad Anoeta, si è
tentato di manipolarla al massimo. In primo luogo, dal
punto di vista di qualsiasi militante di sinistra, è
chiaro che la strada è uno strumento per il
protagonismo della gente, del popolo, quindi nessuno
smetterà di lottare nelle strade. Altra cosa è che
questo si esprima in un’altra maniera. Ciò che abbiamo
fatto allora, è stato raccogliere alcune parole di
Alec Reid (religioso irlandese, protagonista del
processo di risoluzione di quel conflitto, N.d.T.),
nel senso di togliere il conflitto da parametri di
scontro armato o violento nelle strade per portarlo ad
un tavolo di negoziato e risolverlo, ma non
rinunceremo al protagonismo popolare nelle strade.
Questa ci pare, inoltre, una misura d’igiene
democratica, che può consentire di avallare il
processo.

­Avete sempre messo in guardia dalle provocazioni e,
nelle ultime settimane, queste sono state chiare; ma a
partire da ora, possono anche aumentare? E in quali
ambiti?

In un processo con queste caratteristiche, le
provocazioni possono venire da ambienti che hanno un
estremo timore di uno scenario democratico. Abbiamo
sentito leader politici dell’estrema destra spagnola
dire che i militanti devono prepararsi ad una fase
dura… pare che ora le fasi dure siano le tregue di
ETA. Con ciò, non fanno che mostrare l’estrema
debolezza delle loro posizioni politiche. In un
dibattito politico, sono incapaci di mantenere le loro
posizioni, perché sanno che abbiamo ragione, sanno che
nessuno può negare a questo paese il carattere di
nazione e sanno che nessuno dotato di buon senso può
dire che noi baschi non abbiamo diritto di decidere il
nostro futuro. Questa è la loro grande debolezza e la
nostra grande forza e la sinistra indipendentista si
presenta a questo processo con enorme forza, perché sa
che ciò che va a sostenere al tavolo dei negoziati è
ciò che pensa la grande maggioranza della società
basca e, oserei dire, una gran parte dell’opinione
pubblica spagnola progressista. Perché sostenere,
oggi, che va bene il diritto a decidere del Montenegro
o del Sahara Occidentale e negarlo ai baschi è una
posizione estremamente difficile da difendere.

­Le pare positivo che Rodríguez Zapatero si riferisca,
nella sua prima dichiarazione dopo il cessate il
fuoco, alla sua fiducia nella società basca?

Io non so se lui ha fiducia nella società basca, noi
abbiamo una fiducia estrema e siamo convinti che, con
l’evoluzione politica che c’è stata negli ultimi anni,
oggi, uno scenario di non riconoscimento del diritto a
decidere del popolo basco sia difficilmente
compatibile con l’aspirazione della maggioranza di
questa società. Con l’ingegneria politica e
l’intelligenza, questo tavolo deve contribuire a fare
di una regola di gioco democratico, quale è il diritto
a decidere, un’approssimazione politica per tutti i
settori di questo paese. Il giorno nel quale tutti i
settori politici di questo paese riconosceranno Euskal
Herria nel suo ambito geografico e riconosceranno la
facoltà di decidere come norma prima di convivenza,
avremo dato un grande contributo per strutturare la
nazione basca in termini civici ed in termini
democratici.

­Queste aggressioni delle ultime settimane avevano
sicuramente un fine chiaro, che era sostenere che la
sinistra indipendentista arriva a questo momento
costretta. La preoccupa che si faccia questa lettura
in chiave di debolezza?

Non mi ha mai preoccupato. La forza di un settore non
si misura in funzione di ciò che è avvenuto nelle
ultime ventiquattro ore. Dov’è la forza politica della
sinistra indipendentista? È nell’avere sconfitto la
transizione politica spagnola, nell’avere messo in
crisi gli ambiti politici, nell’avere inserito
stabilmente nel dibattito politico il diritto a
decidere e la territorialità e nel sapere che, oggi,
la maggioranza del popolo basco accetta con
naturalezza che Euskal Herria è una nazione di sette
territori, plurale e dotata del diritto a decidere in
pace ed in libertà. Questa è la grande vittoria. Che
colpiscano strutture ci procurerà maggiori o minori
danni, ma la nostra forza è il popolo, non c’è forza
maggiore che il popolo e per questo partecipiamo a
questo processo con una forza assoluta, con fiducia e
tranquillità politica, perché ciò che andremo a
sostenere a questo tavolo è ciò che sostiene la
maggioranza del paese.

­Vede possibile che, in questo scenario, il Governo
spagnolo ordini la sua incarcerazione?

Sì, lo vedo possibile. Altra questione è che questo
renderebbe difficilmente comprensibile la credibilità
del processo. Ma è già accaduto con Juan Joxe
Petrikorena (responsabile del settore comunicazioni di
Batasuna, N.d.T.), con Juan Mari Olano (ex
responsabile del movimento per l’amnistia ai
prigionieri politici baschi, N.d.T.)… Ciò che è
evidente è che c’è un’aggressione strutturale contro
la sinistra indipendentista, in termini di Audiencia
Nacional (Tribunale Speciale, N.d.T.), di
persecuzione poliziesca, di rapporti di polizia, di
apartheid politica… Pertanto, non è un’aggressione
contro Arnaldo Otegi, Olano o Petrikorena, è
un’aggressione strutturale contro la sinistra
indipendentista che, in questa situazione, deve
cessare immediatamente. È evidente che, se così non
fosse, staremmo costruendo qualcosa che non ha basi
solide.

­Chi sarebbe maggiormente danneggiato dalla decisione
di incarcerarla?

In questi momenti, l’incarcerazione di Arnaldo Otegi,
come quella di Juan Joxe Petrikorena o quella di Juan
Mari Olano, metterebbe la palla nel campo dello Stato.
La sinistra indipendentista ha già accreditato
sufficientemente quale sia il suo livello di volontà e
di impegno per uno scenario nuovo. Se, una volta
accreditata questa volontà, si perseguisse la
perpetuazione del conflitto, sarebbe un errore
immenso. Confido che lo Stato spagnolo ed il suo
Governo saranno capaci di comprendere che una dinamica
di questo tipo condurrebbe il processo ad una mancanza
di credibilità; credibilità che può non essere
indispensabile ma che sarebbe molto importante.

­All’interno del PSOE si sono sentite riflessioni
molto differenti sulla figura di Arnaldo Otegi, sulla
sua condizione di interlocutore no… che conclusioni ne
ha tratto da tutto questo?

La sinistra indipendentista ha sempre sostenuto di
avere un’interlocuzione collettiva. Abbiamo risorse
umane sufficienti per mantenere il livello di
interlocuzione con lo Stato spagnolo e con quello
francese. Rifiuto un dibattito sull’interlocuzione
personale. Io non rappresento Arnaldo Otegi ad un
tavolo, io rappresento un settore popolare che ha
combattuto in questo paese, ha vinto una battaglia
politica e che continua a lottare. Non mi interessa
quale sia la predisposizione del PSOE a riconoscermi
come interlocutore. Alla fine, deve riconoscere la
sinistra indipendentista ed il suo interlocutore. Non
c’è processo senza Batasuna al tavolo dei negoziati,
non c’è processo se Batasuna non recupera tutti i suoi
diritti e le aggressioni contro Batasuna e contro i
suoi militanti sono aggressioni contro il processo,
contro l’interlocuzione che è Batasauna.

­C’è un altro spazio nel quale lo Stato spagnolo sta
giocando molto duro, che è quello dei prigionieri.
Cosa deve accadere, rispetto a questa questione, ora?

Dobbiamo essere particolarmente prudenti nel trattare
questo tema. Dobbiamo renderci conto, da una parte,
che lo Stato ed il PNV (Partito Nazionalista Basco,
N.d.T.) hanno interesse nel far vedere che questo
processo è di «pace in cambio di prigionieri», mentre
noi insistiamo sul fatto che è un processo di «pace in
cambio di democrazia e giustizia per il popolo basco».
Ma, detto questo, è evidente che il livello di
repressione e di aggressione contro il Collettivo dei
prigionieri politici nelle carceri spagnole e francesi
deve scomparire; in primo luogo, perché il Collettivo
deve essere un soggetto che collabori al processo e,
per questo, bisogna rispettarne la dignità e la
capacità di attività politica.

­Guardando a precedenti processi di pace non andati a
buon fine, di quali insegnamenti tiene conto in modo
particolare?

In primo luogo, sapere che questo è un processo
lungo, duro e difficile. Zapatero lo dice e noi lo
confermiamo. In secondo luogo, che questo è un
processo di lotta: abbiamo raggiunto un importante
primo stadio, che è obbligare tutti a condividere con
la sinistra indipendentista la riflessione secondo la
quale bisogna sedersi ad un tavolo e concordare nuove
basi politiche per questo paese, parlare di cosa è
Euskal Herria e di come si rispetta la sua facoltà di
decidere. Ciò che bisognerà comprendere ora, è che
questo è un processo di lavoro, di lotta, di
accumulazione di forze sul terreno sociale, popolare,
elettorale… Nessuno ci regalerà nulla, bisogna
continuare a lottare. Io credo che questo sia
l’insegnamento fondamentale. Il processo di
negoziazione ed il suo culmine con successo non
dipendono tanto da quanto saremo abili al tavolo di
negoziato, ma dal fatto che la sinistra
indipendentista, a questo tavolo, rappresenti, insieme
ad altri, le aspirazioni popolari maggioritarie e
queste devono manifestarsi nella vita sociale,
politica e sindacale, perché questa è la migliore
garanzia che il processo si concluda positivamente.

­Che atteggiamento si attende dal PNV? Dopo Lizarra
(l’Accordo di Lizarra-Garazi fu quello che, nel 1998,
permise di iniziare un processo di pace poi
interrotto, N.d.T.) voi diceste che uno degli errori
fu accordarsi con una parte del PNV, ma non con tutto
il PNV e questa divisione fra due settori ora appare
più evidente che mai, non è così?

Il PNV, in questo momento, è percepito dal popolo
basco come un partito diviso in due, ma bisogna tenere
conto del fatto che comanda chi comanda ed a comandare
non sono esattamente i settori più entusiasti della
situazione di Lizarra-Garazi. Non ci attendiamo grandi
cose dal PNV. Ci aspettiamo che, innanzitutto, sarà un
fedele alleato dello Stato e che, pertanto,
interpreterà più il ruolo di chi cerca di fare una
sintesi fra le posizioni del PSOE e quelle della
sinistra indipendentista che quello di chi mantiene
posizioni ferme in termini democratici e nazionali.
Questo va tenuto presente. Ma altra questione è se
questo PNV ha spazio di manovra o no per fare un
pasticcio come trent’anni fa e pensiamo che non
l’abbia. L’unica garanzia che questo non torni a
ripetersi, è che vi sia un polo popolare, direi
maggioritario, che si ponga fin dall’inizio in una
posizione di ferma difesa di Euskal Herria come
nazione e del diritto a decidere. Non possiamo
permettere al PNV di recedere da questa posizione al
tavolo dei negoziati. A partire da questo, sappiamo
abbastanza bene che il PNV di Imaz, quello della
Dichiarazione di San Ignazio, quello che ci ha
picchiati in piazza a Santurtzi ed a Portugalete è un
PNV che giocherà come alleato dello Stato, perché il
suo unico obiettivo, in questo processo è, se si
riesce a raggiungere uno scenario di non-conflitto,
quello di continuare a gestire le istituzioni di
Gasteiz (sede del Governo Autonomo Basco, N.d.T.) ed a
fare affari.

­Il fatto che il PNV sia rimasto estraneo alla
promozione di questo processo, rappresenta un rischio
aggiunto? Non è stato presente al Bilbao Exhibition
Center (dove la sinistra indipendentista ha presentato
la sua proposta, N.d.T.), non sarà presente alla
manifestazione del 1 aprile…

Semplicemente, è coerente con la Dichiarazione di San
Ignazio. Lì, dice allo Stato una cosa abbastanza
semplice: per risolvere il conflitto bisogna accettare
la facoltà di decisione per il popolo basco, però, da
lì in avanti, la garanzia è che il PNV non giocherà
per creare uno Stato indipendente. A partire da questa
rinuncia all’indipendentismo, si offre come alleato
fedele dello Stato. Gli dice «io, che sono un partito
egemone (per ora, direi io), ti garantisco che non
creerò uno Stato indipendente». È ciò che ha fatto
Convergencia i Unió in Catalogna. Però, qui, il PNV ha
diversi problemi: uno è che la maggioranza del paese
non è più disposta ad accettare questi pasticci ed un
altro è che la base dello stesso PNV digerirebbe male
un pasticcio come quello di trent’anni fa. Ma a
partire da lì, il PNV agirà come un alleato dello
Stato, senza dubbio.

­Lei parla di un processo lungo, duro e difficile, ma
quanto lungo duro e difficile?

Fino a quando non sarà risolto. Non sappiamo quanto
tempo potrà essere necessario, ma prevediamo che un
conflitto che dura da secoli, difficilmente si
risolverà in qualche mese e, pertanto, è un processo
che vivrà alti e bassi, momenti difficili, forti
pressioni… un processo nel quale bisognerà lottare,
mobilitarsi, lavorare nelle istituzioni. Bisogna
affrontarlo come una maratona. Scenderemo in campo; se
lo faremo, significa che abbiamo concordato le regole
del gioco, ma la partita sarà lunga, con molti tempi
supplementari e speriamo che, alla fine, si svolga in
condizioni democratiche e che porti ad un risultato
favorevole agli interessi popolari di questo paese.
Noi abbiamo un vantaggio: la maggioranza del pubblico
è d’accordo con ciò che diciamo.

­La sinistra indipendentista ha già valutato come dare
risposte agli scogli che si presenteranno: la
questione dei prigionieri, quella delle vittime…?

Evidentemente, ci sarà chi utilizzerà temi sensibili
per cercare di frapporre ostacoli, ma io proporrei una
riflessione ed un concetto che, a suo tempo, utilizzò
Tomás Borge nella rivoluzione nicaraguense: la
paziente impazienza. Bisogna essere abbastanza
pazienti da sapere che le cose non cambiano dalla sera
alla mattina e bisogna avere ogni giorno l’impazienza
di cambiare le cose il più rapidamente possibile. Ma
sempre guardando il processo da una certa prospettiva.
Oggi, mi azzarderei a dire che c’è un cessate il fuoco
permanente di ETA, che abbiamo svolto tutto un
percorso nel Forum di Dibattito Nazionale, che c’è
l’Accordo Democratico di Base, che c’è la
manifestazione del 1 aprile e che tutti sono contenti
perché ETA ha fornito un contributo a questo sforzo
collettivo, ma domani i famigliari dei prigionieri
continueranno a fare loro visita, i prigionieri
continueranno ad essere tali, noi siamo stati
convocati dalla Audiencia Nacional, le forze di
occupazione non se ne sono andate dal paese…
Riassumendo, siamo all’inizio di un processo lungo.

­Come convincere gli scettici che questa è la volta
buona?

Beh, fino ad oggi la domanda era «perché lei è
ottimista e di quali dati è in possesso». La gente
deve avere fiducia in una cosa; quando la sinistra
indipendentista ha detto delle cose, presto o tardi
queste si sono dimostrate vere. Ciò che è successo
oggi, certifica che quando dicevamo che nelle
settimane successive avremmo visto degli avvenimenti
era la verità: non solo questo, ma anche
l’avvicinamento fra UGT (sindacato di ambito nazionale
spagnolo, N.d.T.) e LAB (sindacato vicino alla
sinistra indipendentista, N.d.T.)… Tutto questo ci fa
essere coscienti del fatto che bisogna avere fiducia
nella gente, nelle nostre forze. Nessuno ci regalerà
nulla, bisogna continuare a lottare, ma abbiamo una
grande opportunità, costruita fondamentalmente dalla
sinistra indipendentista. Bisogna approfittarne. Per
cosa? Per continuare a lottare per l’indipendenza e
per il socialismo.

­E cosa vi aspettate dall’ambito internazionale, con
cosa può contribuire?

È fondamentale un impegno, soprattutto dall’ambito
europeo.Noi baschi siamo un problema europeo, che
riguarda due stati dell’UE. Oggi, questo paese è sotto
una lente e dobbiamo approfittarne per parlare con il
mondo, per dirgli che noi baschi vogliamo
semplicemente votare, decidere, che si rispettino la
nostra condizione nazionale, i nostri diritti
linguistici… La comunità internazionale può giocare un
ruolo di garante in questo processo.

Il prima possibile. Otegi non vuole stabilire termini
temporali per il tavolo multipartitico che è la chiave
della soluzione, ma rifiuta che «si allunghino
inutilmente». Avverte che c’è il rischio di sminuirlo
e che il suo finale non è scritto.

­In questi anni di colloqui con partiti come il PSE
(Partito Socialista di Euskadi, N.d.T.), avete già
trovato gli ancoraggi solidi che cercate per il tavolo
del negoziato?

Ci stiamo lavorando. A suo tempo, pubblicamente,
prospettammo che per costruire questo tavolo di
dialogo e di risoluzione era necessario condividere
una diagnosi, alcuni principi, alcuni impegni, un
metodo per l’assunzione di decisioni, una copertura
internazionale… Ci siamo. Ciò che la situazione
attuale consentirà, è sbloccare definitivamente, se ne
esiste la volontà, questa ricerca, affinché questo
accordo sia possibile nelle prossime settimane. Perché
ora tutte le scuse si sono esaurite.

­Dunque, si può dire che il tavolo è ora irreversibile
ma che ancora non si sa di cosa si parlerà, né come?

La situazione attuale ci consentirebbe di dire che, a
partire dalla lotta della sinistra indipendentista,
dall’erosione degli ambiti e dalla percezione popolare
maggioritaria, c’è la certezza che la divisione
territoriale e la mancanza di facoltà di decisione
sono un fallimento politico. Curiosamente, ho sentito
un dirigente del PP dire che gli ambiti che si
impongono non sono ambiti che durano. Mi piacerebbe
che applicassero a loro stessi questo concetto. Tutto
ciò che si è imposto qui è stato un fallimento
politico e non ha fatto che generare conflitto.
Pertanto, ora si tratta di affrontare il futuro
secondo parametri differenti. Cosa abbiamo ottenuto?
Certificare che questi ambiti sono in crisi.
Certificare che tutti comprendono che sono necessarie
basi politiche nuove. Certificare che questo va fatto
in maniera negoziata e concordata. Certificare che a
questi tavoli e forum multipartitici bisogna
affrontare il tema della territorialità,
dell’esistenza del popolo basco e del suo diritto a
decidere. Questo è lo stadio che abbiamo raggiunto; a
partire da qui, sarà una lotta lunga, difficile e
della quale non è scritto il finale.

­Dunque, si accetta, per esempio, di dare un certo
tempo alla creazione del tavolo di partiti politici,
come proponeva Josu Jon Imaz (Presidente del PNV,
N.dT.) qualche settimana fa?

Josu Jon Imaz ha un problema. Lui pensa che costruire
il tavolo di partiti contemporaneamente al verificarsi
della tregua avallerebbe le tesi sostenute dalla
sinistra indipendentista negli ultimi trent’anni, ma
io credo che queste tesi siano già state assolutamente
avallate. Ora nessuno nega la ragione storica e
politica alla sinistra indipendentista; questo è
evidente quanto il fallimento di coloro che trent’anni
fa tentarono di costruire un ambito politico che non
ha provocato che sofferenza, divisione territoriale,
mancanza di sovranità eccetera. Senza fretta ma senza
pause, ora si tratta di fare sì che la responsabilità
dei partiti permetta di costruire un tavolo o un forum
il più presto possibile. Senza darci delle scadenze,
ma senza che si rimandi inutilmente.

­Continua a sussistere il rischio che questo tavolo si
componga su un altro appoggio, quale, ad esempio, un
tavolo di riforma dello Statuto?

Questo rischio è sempre presente, anche se penso che
l’evoluzione della società basca non lo renda
possibile. Qui tutti sono coscienti, piaccia o no, che
questo tavolo deve cercare di risolvere il conflitto
politico ed il conflitto esiste non perché noi abbiamo
o no competenze sulla Sicurezza Sociale ma perché non
ci si riconosce come nazione, né ci si riconosce il
diritto a decidere. Questo è ciò che bisogna
evidenziare e sottoporre a consultazione in tutta
Euskal Herria.

­Ibarretxe (Presidente del Governo Autonomo Basco,
N.d.T.) ha già aperto un altro giro di colloqui con i
partiti per tentare di porsi alla testa di quello che
potrà essere un tavolo multipartitico. Come valuta,
questo, Batasuna?

Quando il lehendakari (Presidente, N.d.T.) ha
prospettato l’uscit dal conflitto in termini di
contenuti politici, di Euskal Herria, di facoltà di
decisione, noi abbiamo sempre valutato positivamente.
Rispetto ad un tavolo guidato da lui, noi abbiamo
sempre detto la stessa cosa: questo tavolo non può
vedere esclusioni politiche né territoriali e, per
questo, non c’è alcun tavolo al Parlamento di Gasteiz,
non c’è alcun tavolo nel territorio della Comunità
Autonoma Basca, bisogna istituire un forum di
carattere nazionale. Il lehendakari ha delle
difficoltà strutturali per guidarlo. Per chiarire
definitivamente la questione della guida, perché ora
tutti dicono di avere contribuito enormemente, ciò che
diciamo è che il processo è l’insieme del popolo basco
e la guida deve essere condivisa da tutti coloro che
vi partecipano. Non ci sono leader-star in questo
processo, tutti dobbiamo essere leader perché alla
fine è un processo del popolo basco, non di ETA, né
della sinistra indipendentista, né del lehendakari, né
di Miguel Sanz (Presidente del Governo Autonomo di
Navarra, N.d.T), né di Carlos Chivite (Segretario del
Partito Socialista di Navarra, N.d.T.), né di Daniel
Poulou (Deputato al Parlamento francese per il
Dipartimento dei Pirenei Atlantici, N.d.T.)…

­La conclusione del caso dello Statuto catalano, in
qualche modo la scoraggia? Carod-Rovira
(Vicepresidente del Governo Catalano, N.d.T.) ha
concluso, ad esempio, che è impossibile che Madrid
riconosca che esistono altre nazioni…

Dalla Catalogna bisogna trarre parecchie lezioni. In
primo luogo, ciò che si è proposto dal Parlamento
catalano è una riforma dello Statuto, cosa che noi non
proponiamo. Noi proponiamo una risoluzione del
conflitto e lo facciamo ad un tavolo di partiti, non
in sede parlamentare. In secondo luogo, se si
raggiunge un accordo tra le formazioni politiche
basche, non si accetterà di tornare a negoziarlo a
Madrid; a Madrid si negozia solo l’applicazione di
questo accordo e tutti dobbiamo essere fermamente
determinati a difenderlo in maniera unanime. Un’altra
grande lezione è che la mancanza di mobilitazione
popolare in Catalogna, dove la si è rinviata quasi al
momento del fallimento, è un grave errore, lo dico
senza alcuna intenzione di critica, né di ingerenza.
Il popolo deve spingere il processo fin dal primo
momento nella direzione che interessa alla maggioranza
popolare, che è quella di risolvere il conflitto in
questi termini: Euskal Herria è una nazione che ha il
diritto di decidere, nella maniera che concorderanno i
soggetti politici.