Author: Rosario Gallipoli Date: To: forumlecce Subject: [Lecce-sf] (senza oggetto)
A tutti coloro che si sono lasciati ingannare dalle falsità dei pennivendoli filoimperialisti e dalla propaganda di guerra Amerikana, che hanno sostenuto e sostengono che la resistenza Irachena sarebbe responsabile degli attentati nei mercati e nelle moschee. Leggetevi, per favore le notizie sottoriportate e poi andate a chiedere scusa inchinandovi di fronte all'Eroica Resistenza Popolare Irachena.
Ros.
----- Original Message -----
From: Renato Caputo
To: aa-info articoli e iniziative
Sent: Wednesday, March 29, 2006 11:44 PM
Subject: [aa-info] Terrorismo Usa
Baghdad, sciiti in rivolta contro gli Usa
Dopo una strage in una moschea della capitale irachena, l'alleanza di governo filo Usa accusa gli occupanti e sospende la cooperazione politica e militare. Al Qaeda colpisce Tal Afar: 40 morti tra le reclute
MI. CO.
Si va dalle accuse di fomentare la guerra civile, alla richiesta di espulsione dell'ambasciatore statunitense a Baghdad, Zalmay Khalizad. L'Alleanza sciita che è stata finora il principale partner della politica americana in Mesopotamia è in rivolta contro i suoi «alleati» che - accusa la coalizione vincitrice delle elezioni del 15 gennaio scorso - domenica sera hanno massacrato 37 civili in una moschea di Sadr city, poverissimo mega-sobborgo della capitale irachena. «A causa di ciò che è successo nella moschea al Moustafa abbiamo sospeso l'incontro per discutere della formazione del governo» ha dichiarato ieri Jawad al Maliki, della coalizione uscita vittoriosa dalle urne. Hussein Tahan, governatore di Baghdad, si è spinto oltre: «Il consiglio provinciale di Baghdad ha deciso di interrompere i rapporti politici con le forze di coalizione e l'ambasciata Usa. Misure più rigide saranno prese in futuro per preservare la dignità dei cittadini iracheni».
Il comunicato statunitense parla invece di un'operazione condotta in un'area con «diversi fabbricati». «Durante il raid non siamo entrati in alcuna moschea né alcun luogo di culto è stato danneggiato», si è difeso il portavoce militare Bryan Whitman, secondo il quale nel corso dell'azione «16 combattenti sono stati uccisi e tre feriti durante perquisizioni casa per casa». Condanne sono arrivate anche dal vicino Iran: «La repubblica islamica d'Iran - ha affermato all'agenzia Irna il portavoce del governo di Tehran, Hamid Reza Assefi - è disgustata dall'uccisione senza pietà di fedeli nella moschea Mustafa di Baghdad e considera che si tratta di un atto terroristico selvaggio».
L'ultima versione del governo di Baghdad fissa a 37 il numero delle vittime: «Nel corso delle preghiere serali, soldati americani accompagnati da truppe irachene hanno assaltato la moschea al Mustafa e ucciso 37 persone. Erano tutte disarmate. Sono entrati, li hanno legati e hanno sparato a tutti, senza lasciare nemmeno un ferito», ha dichiarato il ministro della sicurezza nazionale Abdel Karim al Enzi. Le immagini raccolte dalle televisioni locali mostrano un luogo che sembra una moschea: una stanza con tappeti sul pavimento e poster religiosi alle pareti, all'interno corpi crivellati di proiettili. Secondo fonti della polizia irachena consultate dalla Bbc, tra le vittime ci sarebbero tanti civili, ma anche membri dell'Esercito del Mahdi che risponde agli ordini di Muqtada al Sadr, il religioso che proprio in Sadr city ha la sua roccaforte. Per gli analisti politici iracheni sarà proprio l'imam sciita radicale ad avvantaggiarsi del massacro, sia in termini di sostegno popolare che di potere negoziale al tavolo delle estenuanti trattative per la formazione del governo che, più di tre me si dopo il voto, non ha ancora visto la luce.
E quella di ieri in Iraq è stata un'altra giornata di attacchi. Decine di vittime in tutto il paese, con l'attentato più sanguinoso e spettacolare nel nord, tra Mosul e Tal Afar, rivendicato da al Qaeda. Un attentatore suicida avvolto nella sua cintura esplosiva è riuscito a inserirsi tra la folla nei pressi di un centro di reclutamento gestito da americani ed esercito iracheno: almeno 40 morti e 30 feriti. Proprio Tal Afar era stata indicata nei giorni scorsi dal presidente Usa, George W. Bush, come esempio dei progressi fatti sul fronte delle sicurezza. Ed è tornato a farsi vivo Izzat Ibrahim al Douri, l'ex vice di Saddam Hussein che un comunicato del partito Baath aveva dato per morto lo scorso novembre, una notizia che - fu osservato allora da più parti - può essere stata diffusa ad arte per distogliere la caccia degli americani dal «re di fiori», il numero cinque nella lista dei ricercati iracheni, l'uomo che sarebbe dietro a una fetta consistente della resistenza agli occupanti. Con un'audiocassetta mandata in onda ieri da al Jazeera, al Douri ha lanciato un messaggio politico nel momento di massima difficoltà degli occupanti: alla Lega araba, che si riunisce oggi in Sudan, l'invito è a non riconoscere il nuovo governo di Baghdad, che l'ex membro del regime considera illegittimo. «La resistenza è l'unico rappresentante del popolo iracheno» recita la registrazione. E, alla luce dell'esplosione della violenza settaria dopo l'attentato di Samarra, al Douri dice che «l'uccisione di persone sulla base delle proprie carte d'identità rappresenta un atto di viltà e criminalità».
USA/IRAQ
L'invasione decisa in anticipo: un memo britannico
MA.FO.
Un nuovo documento, non il primo per la verità, testimonia che due mesi prima dell'invasione anglo-americana in Iraq il presidente degli Stati uniti George W. Bush aveva già deciso di andare avanti con l'invasione dell'Iraq e lo aveva detto al premier britannico Tony Blair. Così risulta dal memorandum di una riunione a porte chiuse tra Bush, Blair e alcuni dei loro più stretti collaboratori, avvenuta il 31 gennaio 2003 nell'Ufficio ovale (quello del presidente) alla Casa Bianca: il documento, redatto da David Manning, capo consigliere di Blair per la politica estera, è citato in modo esteso dal New York Times di ieri.
Che la Casa Bianca fosse decisa a mettere fine al regime di Saddam Hussein con una guerra ormai è noto. Un precedente memorandum britannico, noto ora come Downing Street Memo 8del 2002) registrava che i dirigenti britannici avevano già capito che Washington era determinata e «informazioni segrete e fatti vengono aggiustati attorno a questa politica». Il «Manning Memo» offre un paio di elementi in più. Si noti in primo luogo che quella riunione è avvenuta una settimana prima che l'allora segretario di stato americano Colin Powell andasse all'Onu a presentare le «prove» che l'Iraq nascondeva armi «non convenzionali» (o di distruzione di massa), l'ormai famoso show: ovvero, Washington e Londra stavano in teoria ancora cercando una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzasse la guerra. Eppure, si legge nel memorandum che Bush aveva detto chiaro: se non otterremo quella risoluzione, l'azione militare ci sarà in ogni caso. Nella conversazione Bush e Blair riconoscevano che in Iraq non sarebbe stata trovata nessuna arma non convenzionale, e discutevano tranquillamente di come creare un altro casus belli. Riferisce il consigliere britannico che i due avevano prospettato tre possibilità: una era sorvolare l'Iraq con un aereo-spia U2 americano dipinto con i colori dell'Onu, nella speranza che Saddam lo facesse abbattere offrendo un pretesto. Le altre ipotesi erano far assassinare Saddam, oppure tirare fuori un disertore iracheno con rivelazioni sulle armi di distruzione di massa del regime iracheno.
Una parte consistente dell'incontro descritto da Manning è passato a discutere i dettagli dei piani militari e il calendario dell'operazione: i bombardamenti dovevano cominciare il 10 marzo (in effetti sono cominciati il 19). A Blair che chiedeva come era stato pianificato il dopo- invasione, Condoleezza Rice (presente nella veste di consigliera per la sicurezza nazionale) rispose che il Dipartimento alla difesa aveva «previsto tutti gli aspetti». Bush e i suoi prevedevano una vittoria rapida e una transizione senza troppi dolori. Converrà ricordarsene, ora che si profila un altro «nemico numero uno» all'orizzonte.