il manifesto
8 febbraio 2005
La mimetica del dottore di Bolzaneto
Al processo G8 due testi riconoscono il direttore sanitario della caserma di polizia, Giacomo Toccafondi, come il medico che si comportò come i picchiatori in divisa
SIMONE PIERANNI
GENOVA
Evenne il turno dell'infermeria. «Al medico avevo raccontato che mi avevano rotto il labbro, ma lui disse che erano fatti miei, che me l'ero fatto da solo», racconta uno dei testi ascoltati ieri nel processo per i fatti di Bolzaneto. Dopo i riconoscimenti delle divise e di alcuni poliziotti responsabili diretti e indiretti delle violenze, nelle udienze di questa settimana l'attenzione processuale è riservata al personale medico presente a Bolzaneto: cinque medici figurano infatti tra i quarantacinque imputati del processo (gli altri sono poliziotti, carabinieri e poliziotti penitenziari). «E' emerso in maniera chiara e incontrovertibile che il trattamento subito in infermeria dagli arrestati è stato vessatorio e non conforme ai principi della tutela della dignità e della salute delle persone», hanno scritto nella memoria i pm Patrizia Petruzzello e Ranieri Miniati. L'infermeria, anziché essere una zona franca all'interno della caserma, fu contraddistinta da un clima definito «grave», senza che nessun medico intervenisse mai per evitare abusi: non sono mancati casi di percosse, minacce e insulti soprattutto da parte degli agenti della polizia penitenziaria, che svolgevano proprio in infermeria le «perquisizioni». Per questo alla cosiddetta «area sanitaria - una delle due unità organizzative autonome dell'amministrazione penitenziaria presente a Bolzaneto - i pm hanno dedicato settanta pagine delle oltre cinquecento della propria memoria, confermate in aula dal racconto dei primi testimoni.
I fermati erano sottoposti a una prima visita preliminare, il «triage», poi passavano in infermeria dove ricordano altri insulti e silenzi dei medici di fronte alle botte e alle umiliazioni: l'area sanitaria, da zona franca, diventa così un altro luogo di terrore. Anche l'abbigliamento dei medici la dice lunga: Giacomo Toccafondi - allora direttore sanitario della caserma - riconosciuto in fotografia nella due giorni di udienze di questa settimana da due testi, durante i turni era solito indossare una maglietta scura con la scritta «polizia penitenziaria», i pantaloni della tuta mimetica di ordine pubblico, oltre ad effettuare il «triage» con guanti di pelle scuri con le nocche imbottite, proprio come gli agenti picchiatori. «Si recava, per sua stessa ammissione - scrivono i pm - al lavoro con la pistola». Questo in sé non è reato, proseguono, ma in quelle circostanze «sarebbero stati necessari e doverosi da parte dei medici una particolare sensibilità e un segnale forte di dissenso rispetto al clima generale e che fossero anche esteriormente percepibili». Lo stesso dottor Toccafondi è anche noto per essere stato accusato di avere preso alcuni «trofei» ai ragazzi «visitati» - magliette e oggetti - sottolineando a uno degli infermieri che per primi denunciarono le violenze di avere alcuni «ricordi» provenienti anche dalle sue esperienze in Bosnia.
Sempre lui fu inoltre chiamato a soccorrere una ragazza cui fu spruzzato il gas urticante in faccia, senza effettuare alcun referto, così come non refertò l'episodio dell'uomo cui venne lacerata la mano, raccontato in aula dalla vittima nelle scorse settimane. Un curriculum niente male: tra gli altri reati, quello di lesione al diritto di salute e «lesione del diritto degli arrestati di tutelarsi giudiziariamente in riferimento alle lesioni e alle violenze subite». Nel corso delle testimonianze sono inoltre proseguiti i racconti drammatici dei fatti nel resto della caserma di Bolzaneto: colpi sui genitali, persone a terra prese a calci, botte su ferite già colpite, umiliazioni fisiche e verbali.
«Ti voglio lasciare un ricordino», dice un poliziotto a un ragazzo, che racconta in aula l'episodio, tentando, poco dopo, di assestare colpi al naso già rotto e di strappare a forza gli orecchini. E ancora le suonerie di «faccetta nera», poliziotti che mostrano simboli nazisti sulle magliette, il terrore di andare in bagno, da dove, in alcuni casi, i ragazzi tornano in barella. Dalle testimonianze ascoltate ad oggi, è emersa dunque quella nota «banalità del male», che ha consentito di respirare il clima creato e imposto a Bolzaneto in quelle giornate, anche in una gelida aula di tribunale, quasi cinque anni dopo.
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