[Intergas] Le arance, la diversità, il concetto di nemico e …

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Author: p12345
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To: intergas
Subject: [Intergas] Le arance, la diversità, il concetto di nemico e i calci nelle palle

Il camion delle arance è in viaggio, l’impegno di tutti sta (letteralmente) portando i suoi frutti, tra un paio di giorni il sole della Sicilia colorerà il nostro inverno milanese e per tutti sarà più facile attendere il ritorno della bella stagione.

Mi porto dentro però anche un nodo che vorrei sciogliere insieme a tutti voi.

Mi vengono in mente tante cose da desiderare, ne dico solo alcune, e poi vi racconto una storia.

Vorrei che l’intergas sia un luogo che unisce perché l’unione ci serve, anzi è tutto, è la logica stessa della fondazione e dell’esistenza dell’intergas. Ogni unione ha bisogno di fiducia, di ascolto, di modestia, e se non fossi sicuro di esagerare aggiungerei d’amore.

La fiducia è per esempio la scelta che un numero sempre maggiore di gas sta mettendo a fuoco come criterio principale, anzi unico, per essere veramente garantiti negli acquisti, la fiducia verso il produttore, fondata sulla conoscenza diretta, sull’ascolto, sulla comprensione della realtà dell’altro, che a volta ci spinge a fare un passo al di là del confine (per es. della biologicità dei prodotti) che normalmente non oltrepassiamo, perché capiamo che in quel momento il produttore non può fare di più, perché sappiamo che con il nostro aiuto il produttore da quello stesso momento farà di più.
E allora perché non fare un piccolo sforzo ulteriore e concedere la stessa fiducia, adottare lo stesso atteggiamento nei confronti di chi lavora nell’intergas?

Vorrei che venga il tempo per prima cosa di capirsi, empaticamente prima ancora che razionalmente, poi di spiegarsi e non di convincere, quindi di camminare insieme sul sentiero che l’incontro ha aperto.

Quanto fin qui detto non è un invito a stemperare le proprie posizioni, a finirla sempre e comunque a tarallucci e vino, ma ad aver voglia di capire piuttosto che di giudicare, di imparare piuttosto che di convincere, e quando non possiamo fare a meno di dire no e mettere i limiti, a farlo, se appena possibile, sorridendo e con gentilezza, con la massima serenità possibile.. Non sto facendo il predicatore, sono cose che dico tutti, a me per primo.

Vorrei che imparassimo a gettare ponti per incontrarci nella diversità, non certo per convivere sopra un ponte, significherebbe solo scomodità e sradicamento.

Vorrei anche che l’intergas sia un luogo che non generi sentimenti di disagio e amarezza, che tolgono energia, ma tutto il contrario. Vorrei che l’intergas abbia il potere di creare entusiasmo e fiducia nelle nostre capacità di produrre cambiamento e nel futuro.

Penso che gli uomini siano molto molto molto più complessi e profondi della legge o della morale che pretendono di giudicarli. A volte persino un poliziotto, figuriamoci la Cascina Nibai!


Ecco la storia.

Ieri passavo (per caso) dalle parti della Val Susa e (sempre per caso) sono capitato al presidio no tav di Venaus. E’ proprio lì che ho sentito raccontare questa storia.

Situazione stazionaria, i poliziotti al di là della recinzione del cantiere, noialtri a pochi metri a tenerli d’occhio, che non tentino di venire avanti a occupare gli altri terreni. Così da giorni, ogni tanto un tentativo di avanzamento della polizia, subito le grida delle vedette, subito l’accorrere di centinaia di persone che si appoggiano agli scudi e non gli permettono di venire avanti.
Ieri notte verso le 22, mi mancavano due cucchiai per finire il piatto di minestra, sento chiamare: stanno venendo avanti! Mollo tutto, corro e mi ritrovo in prima fila, li blocchiamo, due file di poliziotti che spingono di qua, dietro di me sette file che spingono di là, mi ritrovo per diversi minuti letteralmente sospeso da terra, appoggiato pancia contro pancia ad un graduato, lo conosco, ci ho già parlato, anche oggi, anche in dialetto, come tanti è della zona, ci fissiamo negli occhi. Ad un certo punto la tensione aumenta, la pressione delle spinte anche, il volume delle voci si alza, e all’improvviso il poliziotto mi tira un calcio nelle palle. Io lo guardo allibito, gli dico: Ma sei scemo? Ci siamo parlati anche oggi e tu mi tiri un calcio nelle palle? Lui mi guarda, bofonchia qualcosa: è così, è un riflesso, c’era tensione, il calcio è partito, non ho potuto farci niente! Non hai potuto farci niente? Ma che merda sei? Sei proprio una merda! Restiamo spiaccicati uno contro l’altro ancora a lungo, ci fissiamo ancora a lungo, il suo disagio è evidente. Il confronto va avanti, minuti, un quarto d’ora, nessuna delle due parti molla, sono piccoli spostamenti, meglio dire aggiustamenti dei corpi spiaccicati uno contro l’altro, pochi centimetri, così dopo qualche minuto mi ritrovo appoggiato pancia contro pancia al poliziotto calciatore, gli alzo un ginocchio tra le gambe, spingo appena e mantengo la pressione, gli vedo un’espressione sempre più preoccupata, tengo gli occhi fissi nei suoi, in silenzio, poi gli dico: vedi, avrei potuto renderti il tuo calcio di prima, ma non lo faccio, perché non sono una merda come te. Lui non dice niente, mi guarda, anche perché siamo uno contro l’altro e non può fare diversamente, ma si vede benissimo il senso di vergogna che prova e che non vede l’ora di tornarsene dietro la recinzione del cantiere tra i suoi.
Dopo un po’ i poliziotti abbandonano il campo alla gente e tornano dietro la recinzione del cantiere, inseguiti dal tormentone quotidiano di tutto il presidio: Sarà dura! e dalla gioia della vittoria: no pasaran! Il giorno dopo un ufficiale superiore in grado a quello del calcio, mi incontra e mi fa: ma cosa gli hai fatto ieri a /…/? L’ho incrociato subito dopo che sono rientrati, mi vede e mi fa: sono una merda, mi vergogno come una merda, mi faccio proprio schifo!
Il giorno dopo abbiamo ripreso a parlarci, anche in dialetto, ma ad un certo punto gli faccio: guarda che mi devi almeno un paio di caffè, anzi anche un tartufo, e non provare a dire niente! Lui mi guarda di sbieco, bofonchia qualcosa, io lo guardo fisso, allora sta zitto e cambia argomento.

A domani. Paolo De Toni


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