Il modello USA - Se l'emarginazione finisce in carcere     
      
Prigioni federali, prigioni statali, prigioni di contea. Prigioni private.  
Braccialetti elettronici, cavigliere elettroniche. Libertà vigilate,  
libertà condizionate. In tutto 6milioni di persone sottoposte a controllo  
penale, di cui un terzo rinchiuso in galera. Ogni 45 persone libere ve ne  
è una che sta per entrare in carcere, che potrebbe entrare in carcere, che  
è già finita in carcere. Numeri che nel mondo non trovano concorrenti. La  
Russia, con 500 detenuti ogni 100mila abitanti, e la Cina, con la sua  
cifra oscura di prigionieri, sono gli unici rivali significativi. C'è da  
chiedersi come mai gli Stati uniti si siano indirizzati verso il più  
grande internamento di massa dal dopoguerra ad oggi nel mondo intero. Solo  
nei periodi bellici si sono riscontrati numeri di questa portata, ma si  
trattava di prigionieri di guerra, di soldati di un esercito nemico  
richiusi nei campi di prigionia. Oggi invece la grande reclusione  
americana trova ben altre spiegazioni. Le radici in cui si innesta sono  
quelle di una società neo-liberale che ha costruito il proprio consenso  
sulla esclusione sociale, sulla incarcerazione delle povertà. Quella ampia  
quota di persone escluse dalla democrazia maggioritaria, marginale nei  
processi produttivi, che fa statistica in negativo nelle percentuali degli  
occupati, e diventa oggetto delle politiche di «tolleranza zero» da  
Rudolph Giuliani in poi. Il senza casa, l'eroinomane, l'afro-americano non  
sono più un costo sociale ma una opportunità economica su di loro si è  
consolidato il sistema pubblico-privato delle prigioni americane.
Ci sono stati dove l'incidenza di carceri e carcerati sul Pil è ben  
superiore alla produzione industriale. Così i detenuti crescono, i  
disoccupati diminuiscono, le spese sociali non sono più necessarie. Si  
origina un meccanismo circolare: meno welfare, inevitabilità della scelta  
criminale, repressione della devianza, prigionizzazione diffusa. Meno di  
un decimo dei detenuti è recluso in carceri gestite dal Federal Bureau of  
Prison. Tutti gli altri sono dentro prigioni di proprietà statali, di  
contea o private. Il dipartimento federale della giustizia non sa cosa  
accade dentro quelle carceri, non dispone né di poteri di indirizzo né di  
poteri di controllo. Una società privata che gestisce un carcere può porre  
il segreto aziendale di fronte a chi vuole indagare sulla qualità della  
vita detentiva o sul trattamento riservato ai detenuti. Anche se ad  
indagare sono le Nazioni unite. D'altronde gli Usa non hanno mai voluto  
firmare e ratificare il protocollo alla convenzione Onu contro la tortura  
che prevede un meccanismo di ispezione universale dei luoghi di  
detenzione. Questa è l'America al tempo di George Bush.
Eppure l'America non è sempre stata così. Trent'anni fa i detenuti erano  
un sesto di quelli attuali. La politica era meno truce. La cinematografia  
americana era piena di film che sulle prigioni avevano un altro occhio.  
Papillon, Fuga da Alcatraz, The Blues Brothers. Sì, perché John Beluschi e  
Dan Aykroyd iniziano e finiscono le loro avventure musical-sociali da  
carcerati. Oggi le figure del carcerato simpatico, del carcerato eroe, del  
carcerato vittima non appartengono più all'immaginario hollywoodiano e  
americano in generale. La nostrana ex Cirielli sulla recidiva guarda  
all'America con invidia, si ispira a quella logica penale, insegue quei  
numeri. Oggi i detenuti nelle carceri italiane sono 57.500, il  
sovraffollamento determina condizione di vita tragiche, si parla di  
amnistia come soluzione per ridurlo. Se avessimo i tassi di detenzione  
americana arriveremmo a 350mila reclusi. Numeri insopportabili per un  
paese che nella Costituzione ha sancito il diritto alla rieducazione.
PATRIZIO GONNELLA
Il Manifesto
26/4/2005