[Forumlucca] I nostri compiti nell'immediato (ma non troppo)…

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Author: Laboratorio Marxista
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Subject: [Forumlucca] I nostri compiti nell'immediato (ma non troppo) - Controvento n.9

      I NOSTRI COMPITI NELL'IMMEDIATO
      (MA NON TROPPO)


      Laboratorio Marxista
      Controvento n.9, settembre 2004, prima parte
      http://circoloiskra.freeweb.supereva.it\controvento/n.9/1.htm


      ______________
      «Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e
difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da
nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in
virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri
nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal
primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e
preferito la via della lotta alla via della conciliazione. Ed ecco che
taluni […] si mettono a gridare: “Andiamo nel pantano !”. E, se si
incomincia a confonderli, ribattono: “Che gente arretrata siete ! Non vi
vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore ?”.
Oh, si, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare
voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro
posto é proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per
trasportarvi i vostri penati. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a
noi e non insozzate la grande parola della libertà, perché anche noi siamo
“liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il
pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso».


      Lenin, «Che fare ?», Opere vol 5, pag 327


      Nell’agosto del 2000 abbiamo pubblicato un opuscolo [1] contenente
analisi e tesi attorno alle quali abbiamo costruito l’iniziativa politica di
questi 4 anni; in una di queste tesi sostenevamo che il compito principale
della fase attuale fosse quello di contribuire alla ricostruzione del
partito comunista, la cui condizione propedeutica individuavamo nel
superamento dialettico di molte delle divisioni esistenti all’interno del
movimento comunista. Sul perché ritenevamo (e riteniamo) necessaria la
costruzione di un partito effettivamente comunista (quindi, sul perché
riteniamo che oggi un tale partito non esista) e su quali caratteristiche
attribuiamo alla nozione di “partito” siamo già intervenuti in altra sede ed
avremo comunque modo di ritornarci. A 4 anni di distanza valutiamo che le
condizioni per la ricostruzione del partito comunista non solo non sono
migliorate ma, se possibile, sono ulteriormente peggiorate e che pertanto i
tempi necessari al raggiungimento di questo obbiettivo si sono ulteriormente
dilatati. Questa valutazione nasce dalla constatazione che non solo non si
sono fatti significativi passi in avanti verso il superamento del
settarismo, del residualismo e dell’auto-referenzialità, ma che anzi
settarismo, residualismo e auto-referenzialità dilagano in una miriade di
micro-progetti la maggior parte dei quali sono destinati, malgrado l’impegno
e le buone intenzioni, al sicuro insuccesso. Non si tratta (solo) di un
problema di immaturità: si tratta di un vero e proprio problema di
impostazione politica.


      Da diversi anni [2] sosteniamo che per arrivare alla costruzione di
una autorevole forza comunista rivoluzionaria è necessario passare
attraverso una fase politico-organizzativa intermedia (la cui forma, in
altri contesti, abbiamo ipotizzato come “confederativa”), una fase in cui
gruppi e singoli (le “forze soggettive comuniste”) possano sperimentare una
comune pratica e una comune elaborazione teorica valutando concretamente la
loro capacità di procedere assieme.
      Ed anche se continuiamo a sostenere questa posizione siamo assai meno
fiduciosi sul fatto che essa possa concretizzarsi in tempi medio-brevi
perché l’esperienza che abbiamo fatto in questi anni con diverse “forze
soggettive comuniste” ci mostra che le difficoltà a procedere assieme sono
molto maggiori di quanto noi stessi potessimo supporre. Finché si rimane
allo stadio di astratte enunciazioni di principio è sempre possibile
stringere patti, costruire fronti, promuovere coordinamenti: ma quando si
passa dall’astratto al concreto le cose cambiano.


      Il problema della frammentazione politica del movimento comunista è un
problema complesso nel quale si intrecciano fattori politici e fattori
sociali (residualità, opportunismo, auto-referenzialità, trasformazione
della stratificazione di classe, arretratezza politica del movimento dei
lavoratori…); per questo problema non esistono soluzioni semplici altrimenti
qualcuno le avrebbe già praticate con successo. Del resto, l’intera storia
del movimento comunista rivoluzionario è costellata da unioni e divisioni,
da scontri politici e teorici: pensiamo alla storia della Lega dei comunisti
(con lo scontro tra le posizioni di Marx ed Engels e quelle di Weitling
prima e di Schapper successivamente) o alla storia dell’Associazione
Internazionale dei Lavoratori (con lo scontro tra Marx e Bakunin) o, ancora,
al tortuoso processo di sviluppo del POSDR [3] (con le divisioni tra Lenin,
Plechanov e Martov).  E proprio perché “si sa che il semplice fatto dell’
unificazione appaga gli operai” [4], per non ingannarli, è necessario
stabilire su quali basi e per quali obbiettivi l’unità è possibile e,
soprattutto, utile; diversamente, parlare di unità è solo una frase vuota o
addirittura uno scudo dietro il quale nascondere le peggiori intenzioni [5].


      Ma quello dell’unità non è solo un problema di posizioni politiche: è
anche un problema di comportamenti.
      Essere rivoluzionari non significa solo dire e fare cose
“rivoluzionarie” (quelle volte che accade), ma anche avere un modo
rivoluzionario di dire e fare le cose, possedere un’etica rivoluzionaria,
manifestare concretamente una diversa concezione dei rapporti sociali,
liberarsi dalle conseguenze di una educazione fondata sull’ipocrisia, sulla
falsa coscienza auto-consolatoria, sulla sistematica mistificazione. Chi
pensa che sia “etico” sentirsi libero di dire qualsiasi menzogna e di
adoperare qualsiasi sotterfugio in nome del superiore valore della “lotta di
classe” e della “rivoluzione” (in realtà, in nome di micro-interessi di
micro-gruppo) non può essere portatore di valori rivoluzionari. Porta,
semplicemente, i valori della cultura dominante, indipendentemente da quello
che scrive e da quello che dice.
      La verità sarà anche “rivoluzionaria”, ma sembra non voglia sentirla
nessuno. Si preferisce il metodo dell’ipocrisia, della slealtà, della
falsità… perché in fondo è il metodo che si conosce meglio essendo quello in
cui veniamo educati sin dalla nascita.


      A causa della attuale situazione di disgregazione per diversi anni non
solo non si determineranno le condizioni per il passaggio all’
organizzazione-partito, ma neppure quelle per il passaggio all’
organizzazione intermedia. E’ una tesi in cui ciascuno è liberissimo di non
riconoscersi, preferendo cullarsi nei sogni della propria fantasia, ma così
è. Anzi, quando ci liberiamo da quel certo ottimismo della volontà che a
tutti noi serve per andare avanti e prende il sopravvento il pessimismo
della ragione, ci pare che sia concreto il rischio dell’estinzione politica
del movimento rivoluzionario nel nostro paese, ovvero della sua riduzione ad
un ruolo di pura testimonianza e subalternità.
      Si pone dunque il problema di come, partendo da queste constatazioni,
sia possibile affrontare il “breve-medio termine”, con quale linea politica
e con quali obbiettivi. Noi riteniamo che le attività principali da condurre
nei prossimi anni potranno essere principalmente due: 1) accumulare e
formare forze potenzialmente rivoluzionarie non opportuniste e non residuali
e 2) radicare nel tessuto sociale e territoriale idee e percorsi di lotta
anticapitalisti. Questi sono, a nostro avviso, il lavoro di avanguardia e il
lavoro di massa che concretamente sono in grado di sviluppare “forze
soggettive comuniste” come quelle attualmente esistenti. Altri obbiettivi
più “alti” possono forse soddisfare l’immaginario astratto di trasformazione
dell’esistente, ma non possono aprire dinamiche di rottura effettiva degli
equilibri politici vigenti. Come abbiamo detto in altre occasioni, quello di
cui abbiamo bisogno è un programma di fase per una fase non rivoluzionaria e
non di progetti velleitari del tutto avulsi dalla realtà storica, politica e
sociale.


      Accumulare e formare forze potenzialmente rivoluzionarie non
opportuniste e non residuali


      La questione dell’accumulazione di forze è una questione che si è
sempre posta all’interno del movimento rivoluzionario e per questo ci sembra
utile spiegare come la vediamo noi. Naturalmente, le considerazioni che
seguono valgono per l’oggi, non per il futuro. Con l’evoluzione della
situazione politica cambieranno anche i nostri compiti, le nostre priorità,
la natura generale e gli elementi particolari del nostro intervento. Chi
pensa di fare, qualunque sia la fase, sempre le medesime cose non merita
neppure di essere preso in considerazione perché non è sideralmente lontano
dal marxismo, ma dalla realtà.
      Intanto, quando parliamo di forze “rivoluzionarie” ci riferiamo ad un
complesso di caratteristiche abbastanza difficile da definire con esattezza;
pensiamo, in prima approssimazione, a compagne e compagni consapevoli che il
compito di una forza comunista è tra le altre cose quello di operare per l’
abbattimento (e non per il semplice miglioramento) del capitalismo[6], della
conquista del potere politico da parte del proletariato[7], dell’
eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, dell’
abolizione del lavoro salariato, della costruzione di una società senza
classi composta da individui liberi e cooperanti che ricevono parte del
prodotto sociale secondo i propri bisogni e non secondo le regole delle
società classiste…, con la consapevolezza che questi obbiettivi sono
raggiungibili solo passando attraverso il “rovesciamento violento di tutto l
’ordinamento sociale finora esistente”[8], cioè attraverso un rivoluzione
comunista realizzata non ad opera di alcuni “amici del popolo” più o meno
ben organizzati e motivati, ma attraverso la mobilitazione di milioni di
persone perché “l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei
lavoratori stessi”.
      Quando parliamo di “forze rivoluzionarie”, ci riferiamo - di
conseguenza - a compagne e compagni consapevoli che la via del riformismo
(cioè della trasformazione in senso “socialista” dello Stato attraverso il
graduale miglioramento delle condizioni economiche delle masse popolari
realizzato per effetto della crescente influenza elettorale/istituzionale
delle forze politiche “progressiste”) è una via che porta solo al
mantenimento dello “status quo” capitalistico e, con il cambiare delle
condizioni storiche, alla perdita di tutto quanto guadagnato nelle fasi di
forte mobilitazione popolare e di conquista di miglioramenti sociali ed
economici (senza contare la reazione violenta dello Stato e delle classi
dominanti alla perdita dei propri privilegi).


      L’esperienza storica concreta ci insegna che le rivoluzioni comuniste
non solo sono possibili (malgrado quelle fino ad oggi realizzatesi siano
state successivamente sconfitte), ma che determinano istantaneamente quella
trasformazione profonda della vita delle persone che il riformismo ha sempre
promesso ma non è mai stato - né sarà mai - in grado di realizzare. L’
esperienza storica ci insegna anche che le classi dominanti sono sempre
pronte a scatenare contro-rivoluzioni e dittature contro le quali non
valgono le armi della dialettica, ma vale solo la dialettica delle armi (per
parafrasare la famosa frase di Marx [9]) e che il determinarsi di una
situazione rivoluzionaria dal punto di vista oggettivo non produce
necessariamente la rivoluzione: nella storia ha spesso prodotto piuttosto la
reazione, il fascismo, che risponde a suo modo alle domande a cui le forze
rivoluzionarie non sanno o non vogliono rispondere.


      La borghesia ha impiegato secoli per affermare stabilmente la propria
egemonia politica, attraverso vittorie e sconfitte, rivoluzioni e
contro-rivoluzioni, avanzamenti e arretramenti. Perché per il proletariato
non dovrebbe essere possibile ciò che è stato possibile per le classi che lo
hanno preceduto ? Perché non dovrebbe esserci un’altra possibilità ? Perché
i proletari, cioè coloro che non possiedono alcun mezzo di produzione al di
fuori della propria capacità di lavorare, dovrebbero ritenere “finita la
storia” rassegnandosi a dedicare le ore migliori della propria giornata e
gli anni migliori della propria vita alla realizzazione del profitto di
qualcun altro, ricevendo in cambio solo i mezzi per la propria sopravvivenza
fisica e quella dei loro figli (la forza-lavoro di ricambio) o, come nei
paesi imperialisti, poco più per comprare merci del tutto inutili ed
inseguire modelli culturali del tutto artificiali ?


      La coscienza politica rivoluzionaria non è il portato spontaneo delle
lotte sociali, né il frutto dell’elaborazione astratta di “sacri testi”. E’
piuttosto un processo dialettico in cui formazione ed esperienza di lotta,
teoria e prassi, si mescolano e si alimentano a vicenda. Per questa ragione
è necessario rifuggire tanto dalla formazione “in provetta” dei militanti,
quanto dall’empirismo del “fare per fare”. Ed è in questo senso che abbiamo
assunto transitoriamente il nome di “Laboratorio”, per segnalare l’
intenzione di “riprendere la lezione leniniana dell’unità dialettica tra
teoria e prassi costruendo luoghi di elaborazione di iniziativa politica,
luoghi dove unire la pratica dell’analisi all’analisi della pratica, luoghi
dove la formazione e la lotta teorica procedano dialetticamente con la
pratica politica” [10].
      Ma, naturalmente, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Oggi,
noi possiamo considerarci  “rivoluzionari” solo nella misura in cui,
assegnando a questo termine una valenza programmatica, vogliamo intendere
che non abbiamo nulla da condividere con i riformisti e con gli
opportunisti. Diversamente, faremmo meglio a parlare di forze rivoluzionarie
“potenziali”, cioè di compagne e compagni disponibili ad intraprendere il
difficile percorso di formazione e di lotta cui accennavamo prima.


      Accumulo di forze rivoluzionarie non significa, ovviamente, accumulo
alla rinfusa di militanti con tendenze vagamente comuniste. Ma, allo stesso
tempo, il nostro intervento non può limitarsi alla collaborazione con
compagne e compagni dalla formazione politica già delineata. Dobbiamo avere
fiducia nella crescita politica di coloro che per le più diverse ragioni si
avvicinano al nostro lavoro e ad una visione anche solo “potenzialmente”
rivoluzionaria dell’esistente, a coloro che non si accontentano di
auto-commiserarsi ed hanno il coraggio di mettere a disposizione le proprie
energie materiali e intellettuali per affrontare una strada difficile e
complessa lungo la quale, per molti anni, non saremo sorretti né dalla
certezza della vittoria, né dall’entusiasmo della situazione.


      “Il compito dei rivoluzionari è fare la rivoluzione”, diceva il “Che”.
D’altra parte la rivoluzione non è la “semplice” “presa del Palazzo d’
Inverno”; è piuttosto un processo storico contraddittorio, non lineare, che
scava persino sotto le macerie delle nostre sconfitte e che si sviluppa
anche quando di insurrezioni rivoluzionarie all’orizzonte non se ne vedono,
anche quando la situazione - come quella attuale - non solo è “non
rivoluzionaria” ma è, per molti aspetti, reazionaria. Potremmo quindi dire:
il compito dei rivoluzionari è lavorare per la rivoluzione [11] (e farla,
quando se ne presenta l’occasione che non dipende dalla nostra soggettiva
volontà e dalla nostra più grande abnegazione).
      Se il potenziale rivoluzionario delle compagne e dei compagni dipende
dalla miscela tra esperienza materiale e formazione politica allora uno dei
nostri compiti fondamentali è quello di comprendere come, insieme a coloro
che vivono le più diverse esperienze di lotta e di resistenza (anche
culturale), sia possibile sviluppare una comune crescita della coscienza
politica.


      Il lavoro di questi anni ha rafforzato in noi una convinzione che
avevamo esposto in Seminare per raccogliere [12] e cioè quella che il
processo di costruzione di una forza rivoluzionaria non può essere
sottoposto ad una sorta di selezione ideologica preventiva e fondato sul
riferimento esclusivo ad una delle correnti storiche e teoriche del
movimento comunista novecentesco. Perché, infatti, prendere il “buono” e il
“cattivo” di una sola corrente quando possiamo “prendere il buono” e
“gettare il cattivo” di tutte le correnti ? Corrisponde forse ad una
concezione dialettica ritenere che tutto il buono stia in una corrente e
tutto il cattivo nelle altre ? No, non è modo dialettico di affrontare le
questioni; è però è un modo comodo e vedremo perché.
      Anche qui il problema è come passare dall’enunciazione alla
realizzazione. Può apparire paradossale, ma malgrado i riferimenti storici e
teorici delle varie “tradizioni” del comunismo novecentesco si vadano sempre
più perdendo nella “memoria popolare” [13]ogni progetto di “rinascita del
movimento comunista” o di “ricostruzione del partito comunista” o di
“rilancio del processo rivoluzionario”… finisce, direttamente o
indirettamente, per collegarsi ad una certa tradizione.


      Questo dipende da diversi fattori.


      Un primo fattore è quello che, in una situazione di profonda e
perdurante difficoltà, può apparire elemento di rafforzamento potersi
collegare idealmente ad una tradizione che ha alle spalle un passato
glorioso e che nel presente può contare su una presenza, pur piccola e
frammentaria, in varie parti del mondo.


      Un secondo fattore è quello che nel rifarsi ad una precisa tradizione
si suppone di avere, bell’e pronta e senza tanti sforzi, la “teoria”. Ognuno
può sfogliare le proprie “bibbie rosse” alla ricerca di qualche frase per
risolvere (si fa per dire) i problemi che di volta in volta si pongono. Da
qui nascono tanto il “nozionismo” di certi intellettuali quanto lo
“sloganismo” dei “teorici” della “pratica anzitutto”. Ovviamente, tutte le
parrocchie ideologiche riconoscono la necessità dell’attualizzazione dei
“sacri testi” che però non compiono mai.


      Un terzo fattore è quello che - essendo ciascuno di noi
obbiettivamente poco autorevole - cerchiamo di trovare per ogni posizione
che esprimiamo una sorta di legittimazione. Se dico una cosa che ha detto
Marx, beh... l’ha detta anche Marx, vangelo. Eppure una cosa non è vera
“perché l’ha detta Marx”, ma è vera se è vera, anche se “sfortunatamente”
Marx non l’avesse detta. Ma invece di tenere conto dell’impostazione
strutturalmente anti-dogmatica del marxismo si finisce spesso nell’
elencazione di frasi più o meno opportune invalidandone il metodo e dunque
anche la straordinaria importanza scientifica.


      Purtroppo, a niente vale ricordare che i grandi marxisti hanno spesso
corretto, nel corso degli anni, posizioni assunte in precedenza sulla base
di nuove evidenze e che ogni posizione politica deve essere letta alla luce
del particolare contesto storico in cui viene assunta.


      Il “nostro” giudizio su una certa corrente del movimento comunista
discende spesso dal giudizio che di quella corrente hanno dato coloro che
hanno scritto i 2 libri sulla cui lettura ci siamo “convertiti” e su cui
pretendiamo di convertire tutti coloro che incontriamo. A questo aggiungiamo
che, poi, l’avvicinamento ad una certa tradizione del movimento comunista
non discende quasi mai dalla valutazione critica e comparata delle posizioni
teoriche e delle esperienze politiche delle varie correnti (operazione molto
faticosa dato che presuppone una conoscenza ampia e profonda, sia delle
varie posizioni teoriche, sia dei contesti storici in cui queste posizioni
si sono manifestate), ma semplicemente dal fatto di avere incontrato nella
propria vita qualche persona che ci è piaciuta politicamente e che aveva una
certa particolare “inclinazione ideologica”. Ci si schiera sulla base di una
adesione preventiva (alla effettiva comprensione delle varie posizioni) e
spesso, proprio perché la formazione non è reale ma fittizia, si mantiene
quello schieramento vita natural durante. Ogni “elaborazione” successiva si
trasforma in niente altro che una ricerca delle giustificazioni alla propria
posizione. E in una storia molto complessa ed un dibattito politico-teorico
molto articolato come quelli che si sono manifestati nel secolo e mezzo di
storia del movimento comunista internazionale non è difficile trovare
surrettiziamente elementi a sostegno di quasi ogni tesi, soprattutto in un
quadro di generale disattenzione ai temi della teoria (spesso considerata
solo una perdita di tempo per intellettuali perdigiorno) e quindi di
sostanziale incapacità a “distinguere il grano dal loglio”.


      In alcune occasioni abbiamo fatto una considerazione che a noi sembra
decisiva.
      Supponiamo pure che nello scontro tra le varie correnti del movimento
comunista novecentesco (ma già questa è una assunzione che gli “ideologisti”
rigetterebbero perché mai gli uni riconoscerebbero agli altri di essere
parte di un comune movimento comunista) una corrente “avesse ragione”
rispetto alle altre su un tema fondamentale; ad esempio, sull’analisi del
processo di costruzione del socialismo in Urss (in fondo questo è stato il
principale “casus belli” delle divergenze tra le diverse correnti del
movimento comunista novecentesco).
      Siamo oggi forse impegnati nella costruzione del socialismo in Urss ?
Anzi, siamo forse impegnati in una qualche costruzione di un qualche
socialismo ?
      E se si presentassero le condizioni, diciamo in Italia, per compiere
una rivoluzione e procedere nella costruzione del socialismo, chi ci dice
che le condizioni storiche, culturali, economiche, nazionali e
internazionali… in cui si costruirebbe il socialismo in Italia sarebbero
analoghe a quelle in cui si è provato a costruire il socialismo in Urss ? E,
di conseguenza, chi ci dice che la bontà dell’analisi di una corrente sulla
costruzione del socialismo in Urss nel 1927 o nel 1936 o in qualsiasi altro
anno possa tornarci utile per la costruzione del socialismo in Italia (- se
va avanti così - nel 3000) ? Non è ragionevole ipotizzare che una analisi
imprecisa in un particolare contesto storico e politico possa rivelarsi
esatta in un altro ? Forse noi consideriamo il marxismo meno efficace nella
sua capacità di interpretare i processi storici e politici perché le
rivoluzioni comuniste si sono realizzate tutte o quasi in paesi arretrati
(dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive) e non nei paesi
più avanzati (dove ben più matura era la contraddizione che Marx individuava
come essenziale alla nascita di un modo di produzione socialista, cioè la
contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di
produzione [14], tra carattere sempre più sociale della produzione e
carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione) ?


      Oppure, dobbiamo gettare nel cestino dei rifiuti il patrimonio storico
e teorico del marxismo perché oggi questa corrente rappresenta nel movimento
operaio poco più di nulla, mentre invece i vecchi e nuovi arnesi del
riformismo continuano instancabili nella loro opera ? Probabilmente, l’
influenza delle posizioni marxiste all’interno del movimento operaio
occidentale non è mai stata così bassa come è oggi. Ma questo, che significa
moltissimo sul piano dei rapporti di forza e quindi sulle possibilità
concrete di far maturare processi di sviluppo della coscienza rivoluzionaria
in settori non marginali del movimento operaio, non significa quasi nulla
sul piano teorico perché ciò che è minoritario in una fase può diventare
maggioritario in un’altra (come proprio le esperienze rivoluzionarie ci
insegnano) a patto che sia capace di interpretare correttamente il movimento
reale della società e non pretendere che questo si sottoponga alle proprie
aspettative.
      Il punto centrale è proprio questo.
      O i comunisti sapranno riconquistare quella lucidità di analisi e di
sintesi che è necessaria anche solo per ipotizzare un processo di
trasformazione rivoluzionaria dell’esistente oppure il loro destino è
segnato. Se invece continueranno a leggere la realtà con la lente deformante
di ideologie auto-consolatorie [15] di strada ne faranno poca. Noi
certamente non siamo all’altezza dei nostri compiti (che tra l’altro ci
auto-assegniamo perché di sicuro nessuno non ci incoraggia). Ma le nostre
idee non sono “peggiori” perché la classe operaia le segue poco, in quanto
la maggior parte della classe operaia segue modelli culturali e idee che da
tutti i punti di vista sono molto peggiori delle nostre (anche seguendo un
criterio razionalistico, non comunista rivoluzionario). Questo non cancella
la fiducia (anzi, è meglio dire la convinzione) che le cose un giorno
saranno diverse. Il punto è che non sono diverse oggi.
      E’ vero che per affrontare i compiti dell’oggi abbiamo bisogno, oltre
che degli strumenti teorici del socialismo scientifico, anche di una lettura
materialistica della storia delle lotte di classe nei paesi a modo di
produzione capitalistico e in quelli “a modo di produzione socialista in via
di costruzione”. Ma, appunto, una lettura materialistica della storia delle
lotte di classe e non una lettura idealistica della storia degli scontri tra
le varie linee teoriche. In linea di principio, su questo tema il conto si
sarebbe potuto considerare chiuso già nel 1846 quando Marx ed Engels, nell’
Ideologia tedesca, stigmatizzavano le convinzioni dei Giovani hegeliani che
“non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le
frasi di questo mondo”.
      Ciascuno di noi è libero di ritenere che la propria affinità con una
delle tradizioni del comunismo storico del ’900 sia lo strumento più
efficace per comprendere la realtà e per trasformarla. Ma il banco di prova
è la capacità concreta di mettere in pratica un progetto conforme all’
obbiettivo della trasformazione in senso comunista del mondo.


      Domandiamoci: perché ci dividiamo sul passato remoto quando abbiamo
già tanti problemi per il passato prossimo e per il presente (lasciamo
perdere il futuro remoto che per fortuna nessuno di noi è ancora in grado di
pre-vedere in una qualche palla di cristallo, altrimenti ci divideremmo
anche sul come leggere la palla) ?
      In realtà, una ragione c’è e si chiama incapacità di confrontarsi
materialisticamente con la storia del ’900 da cui non si riesce a trarre gli
elementi propulsivi, utili per i compiti dell’oggi, ma solo gli elementi
funzionali ad una illusoria auto-consolazione. Nel nostro gruppo siamo in 3
ed abbiamo rapporti con 2 persone ? Bene, basta collegarci idealmente ad una
qualche tradizione rivoluzionaria del ’900 e poi infrattarci in qualche
organismo con i riformisti - talvolta persino con gli imperialisti - e il
gioco è fatto. Riempiamoci la bocca di parole roboanti e poi seppelliamole
sotto un cumulo di “vorrei ma non posso” e di tatticismi del tutto privi di
tattica. Per non essere settari, per carità.
      Agitazione “rivoluzionaria” astratta, subalternità reale. In una
parola: opportunismo.
      Parafrasando Lenin potremmo dire che se l’estremismo è la malattia
infantile del comunismo, l’opportunismo rischia di diventare la sua malattia
cronica. Per questa ragione è necessaria una separazione netta dall’
opportunismo e da tutte le sue manifestazioni per cominciare a toglierci di
dosso tutte quelle incrostazioni che abbiamo accumulato in decenni, per
uscire da quelle sabbie mobili che cercano di risucchiare ogni progetto che
prova ad alzare la testa. Si tratta di una vera e propria “traversata nel
deserto”; speriamo di non morirci di sete.


      (continua nel prossimo numero)




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      [1] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere. Contributo al
dibattito per la ricostruzione del partito comunista, 2000.


      [2] Ad esempio, dai tempi dell’esperienza della Confederazione dei
Comunisti/e Autorganizzati (CCA), nata nel febbraio 1998.


      [3] POSDR, Partito Social-Democratico Russo.


      [4] Marx, Lettera a William Bracke del 1875.


      [5] “Non bisogna farsi fuorviare dalle invocazioni all’‘unità’. Coloro
che hanno sempre in bocca questa parola sono i più grandi fomentatori di
discordia... bisogna avere il coraggio di sacrificare il successo momentaneo
a cose più importanti”. (Engels, Lettera a Bebel in carcere del 20 giugno
1873).


      [6] Per capitalismo intendiamo un sistema economico e sociale basato
sul modo di produzione capitalistico.


      [7] Cioè della classe che, sostanzialmente, possiede come unico mezzo
di produzione la propria forza-lavoro, la propria capacità di lavorare.


      [8] Marx-Engels, Manifesto del partito comunista.


      [9] “L’arme della critica non può sostituire la critica delle armi, la
forza materiale deve essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la
teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”.
Karl Marx, Per la critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico.
Introduzione.


      [10] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere, pag. 53.


      [11] Qui intesa come passaggio del potere dalle mani della borghesia a
quelle del proletariato.


      [12] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere, pag. 55. “Il
partito comunista è il partito di chi lotta per l’emancipazione delle classi
oppresse e per il socialismo, è il partito di chi premette gli interessi
generali del proletariato ai propri riferimenti storici o ideologici. I
comunisti devono rivendicare a sé l’intera esperienza del comunismo
novecentesco nella sua contraddittorietà, cioè nella sua totalità
dialettica. Solo al proletariato rivoluzionario spetta giudicare se una
impostazione ideologica meriti maggiore seguito o meno, e siamo certi che
tale giudizio non si formerà mai a priori, ma solo sulla base dell’
esperienza concreta, cioè sulla base dell’analisi di ciò che una “corrente”
avrà saputo dire/fare meglio di un’altra. E’ in questo senso che diciamo che
la ricostruzione e lo sviluppo del futuro partito comunista non possono che
avvenire nel fuoco dello scontro di classe. E’ ovvio che i riferimenti
storico-ideologici resteranno, almeno per una lunga fase, ma essi devono
diventare di stimolo per il confronto tra le diverse esperienze e per la
crescita collettiva anche nell’ottica di una analisi materialistica dell’
esperienza storica del comunismo novecentesco (e in particolare della
costruzione del socialismo) che rompa, una volta per tutte, con l’assunzione
anti-dialettica dello scontro ideologico come motore della storia. Ciò
significa che riteniamo secondari i riferimenti storici e teorici o che noi
non abbiamo riferimenti o che tutti i riferimenti siano equivalenti ?
Certamente no. Significa che vogliamo renderli costruttivi, capaci di
produrre un salto in avanti e non un ritorno all’indietro. Noi non siamo
contrari alla lotta ideologica, riteniamo anzi che essa debba essere
condotta in modo scientifico e rigoroso concordando con Engels che essa si
pone in modo altrettanto necessario della lotta economica e di quella
politica. Ma questa lotta deve essere condotta principalmente per unire i
comunisti con il proletariato e per separare il proletariato dall’
opportunismo e dal riformismo, cioè dall’influenza dell’ideologia dominante”
.


      [13] Tanto per fare un paio di esempi. La figura di Stalin è stata per
decenni associata non tanto alle sue posizioni teoriche - socialismo in un
solo paese, fronti popolari, Yalta… - (che si possono appoggiare in tutto,
in parte o per niente), ma piuttosto al fatto di rappresentare l’Unione
Sovietica, il paese della Rivoluzione d’Ottobre e della vittoria sul
nazi-fascismo. E anche del “pensiero di Mao-Tze-Tung”, che ebbe una notevole
diffusione ed influenza in tutto il mondo dopo la rivoluzione di Nuova
Democrazia e, soprattutto, dopo la Rivoluzione Culturale Proletaria, è
rimasto ben poco, soprattutto nei paesi industriali avanzati, anche perché
uno degli elementi che facevano definire il “maoismo” la “terza superiore
tappa” sarebbe stata la capacità di Mao di individuare le ragioni dell’
involuzione sovietica e l’avvento del revisionismo moderno. Il problema è
che, proprio seguendo la classificazione dei sostenitori di Mao e della
“terza superiore tappa”, la fase della costruzione del socialismo in Cina
(1964-1976) - o, a voler essere generosi, (1949-1976), volendo comprendere
anche la fase della “rivoluzione democratica” - è durata meno che in Urss
(1917-1953). Dal che si dovrebbe dedurre che Mao, che pure è stato uno dei
più grandi rivoluzionari, aveva forse capito i problemi, ma di certo non
aveva trovato le soluzioni.


      [14] Marx, Per la critica dell’economia politica, Introduzione del
1859.


      [15] Come, tanto per fare due esempi, quella che “basi” buone
sarebbero sistematicamente tradite da direzioni “cattive” oppure quella
(inconfessata) che la costruzione di una teoria della rivoluzione adatta ai
nostri tempi possa consistere, grosso modo, nella riproposizione dogmatica
della teoria della rivoluzione di qualcun altro.





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