Nelle critiche all'iniziativa di Bertinotti, sul sequestro delle due Simone, insulti incivili, strumentalizzazioni di vario tipo e "politicismi" si mescolano a dubbi e incomprensioni genuine
La giusta politica di Rifondazione
L'altra sera, alla (bellissima) festa nazionale di Liberazione in corso a Roma (un pieno di dibattiti, di partecipazione, di voglia-di-stare-insieme), molti compagni - dirigenti di primo piano e semplici militanti "di base" - non riuscivano a nascondere un evidente disagio politico, uno stato (come si diceva una volta) di "disorientamento". Naturalmente, è vero che chiunque di noi, anche chi mangia pane e politica da qualche decennio, in una fase come questa non può non avere la testa piena di dubbi, di domande che restano facilmente senza risposte "persuasive", di incertezze perfino strategiche. Il fatto è che si vanno incrinando, se non rompendo, anche gli schemi più semplici e consolidati: per esempio a proposito del rapporto amico-nemico. Vedete, in quest'ottica, l'angoscioso sconvolgimento prodotto dal sequestro di Simona Torretta e Simona Pari: due di noi, solo tanto più coraggiose e attive di quanto noi siamo capaci di essere, due pacifiste senza se e senza ma, che ora rischiano la loro vita non sotto le bombe di Bush, ma nelle mani di un gruppo - per quanto oscuro e non identificato esso sia - che comunque fa riferimento alla causa del popolo iracheno per le quali Simona e Simona (e tutti noi) si sono sempre battute. Possiamo esorcizzare questa verità quanto vogliamo. Ma come facciamo a non vedere, a non sentire, il colpo durissimo che questo rapimento - dopo l'orrendo assassinio di Enzo Baldoni, dopo la vicenda dei due reporter francesi - può portare alle nostre lotte, alle nostre speranze, al nostro movimento? E come facciamo a non sapere, a non sentirci addosso, il clima di neo crociata che avanza, quella che fa dello scontro delle civiltà (rilanciato proprio ieri, da Gubbio, da Marcello Pera, nientemeno che dalla seconda carica istituzionale dello Stato) la vera posta in gioco di questa fase? In un mondo nel quale le alternative sono ridotte alla guerra imperiale e al suo gemello - il terrorismo o i terrorismi in qualunque forma si manifestino; in un mondo dove la scelta è o con l'Occidente fondamentalista (che in nome della sua "civiltà" si arroga il diritto di occupare Paesi, opprimere popoli, controllare le risorse) o con il fondamentalismo religioso (che, dall'Islam all'India, si arroga il diritto di replicare a quella violenza con una violenza eguale e contraria, proponendo al mondo una regressione ferocemente premoderna, talebana), ciò che avanza è solo la barbarie. Ciò che rischia di morire è la politica. La politica di massa, fatta di partecipazione vera di milioni di persone. L'ambizione di trasformarlo, questo mondo.
Il loglio
Forse, questa premessa è ovvia, e forse attorno a questa (pur schematica) analisi dello stato delle cose presenti, l'accordo è ampio, tra di noi e fuori di noi. Ma da dove nasce, allora, quel che un (malevolo) titolo del manifesto definiva l'altro giorno lo "scandalo Bertinotti"? Intanto, due parole sul "loglio" che, come sempre capita, va separato dal "grano". Ci sono i nuovi barbari che conoscono solo l'insulto incivile e irrispettoso: vivono di questo perché non hanno altra identità da esprimere. Ci sono, poi, i professionisti del ceto politico che praticano normalmente l'arte, spesso e volentieri sciacallesca, della strumentalizzazione: parliamo di quei partiti (Verdi e Pdci) che hanno fatto parte organica di un governo (D'Alema) che ha partecipato in prima persona ad una guerra e ai bombardamenti del Kosovo, e hanno continuato a fare i ministri e i sottosegretari senza battere un ciglio. Parliamo di quelle star del movimento che praticano l'arte del grido mediatico, alla ricerca permanente di spazi, ruoli e posti. Tutti costoro sono pronti, alternativamente, ad accusare Rifondazione comunista ora di massimalismo infantile ora di "tradimento, ora di aver rotto col primo governo Prodi ora di voler tentare un accordo con Prodi": che cosa in realtà, li muove, va quasi da sé, e la "purezza ideologica" - la ridondanza ripetitiva delle formule - copre spesso (quasi sempre?) una pratica spregiudicata, un'empiria moderata e di basso profilo. Ci sono, infine, gli "avvolgenti": i politici e i media della sinistra moderata che usano, ai loro fini, tutto ciò che Rifondazione fa (o non fa) e il suo segretario dice. Anche loro fanno politica, ovvero la loro politica. Se La Repubblica, poniamo, lancia a caratteri cubitali la nuova "svolta" di Bertinotti, non dice la verità: propone la "sua" verità, e la rappresenta per i suoi obiettivi politico-editoriali. Bisogna saperlo, e stare accorti. Una volta, non c'era una sana diffidenza verso la stampa borghese?
e il grano
Venendo al "grano", a ciò che più ci sta a cuore, comprese le perplessità di tanti compagni, diciamo subito che, se "svolta" c'è, è quella che la drammaticità degli eventi ci impone - la realtà, insomma. Salvare la vita delle nostre due ragazze è oggi la priorità che viene consegnata a tutti noi: a Rifondazione, al movimento, ai pacifisti. Dobbiamo o no fare tutto quello che è nelle nostre possibilità, dell'azione, della politica e della diplomazia? Possiamo permetterci il lusso di tralasciare il più piccolo degli spiragli, per evitare l'esito tragico che ciascuno di noi paventa con tremore? Possiamo non concorrere, per quel che possiamo, all'avvio di una trattativa che liberi Simona, Simona e gli altri compagni sequestrati? Per me la risposta è ovvia - era ovvio partecipare all'incontro col governo, era ovvio non condizionare questo tentativo con pregiudiziali politiche, o con la "immissione" in questo confronto di parole d'ordine sacrosante - il ritiro immediato delle nostre truppe dall'Iraq - ma non capaci, nel contesto, di produrre alcun fatto significativo. Si è corso il rischio di dare una mano al governo Berlusconi e di accreditare un inizio di "unità nazionale" con un esecutivo che di questa guerra porta tutte le sue responsabilità? E' una preoccupazione comprensibile, ma sostanzialmente infondata: per un verso, si carica questa vicenda di indebiti significati strategici, per l'altro verso ci si rifiuta di ammettere la distinzione di piani e dimensioni differenti, pur tra di loro intrecciati, magari strettamente. Si scivola così, talora inconsapevolmente, in un politicismo che (lo confesso) questa volta mi appare perfino incomprensibile: in nome del quale, un'emergenza drammatica come quella in corso - la vita di queste due persone - dovrebbe essere affrontata in termini politici organici, come fosse uno dei capitoli-clou del nostro programma politico. Pongo a questo proposito una domanda: se, come tutti noi speriamo, le nostre ragazze torneranno a casa - o al loro lavoro a Bagdad - e a se a questo ritorno avrà contribuito, pur in minima parte, anche lo schifosissimo governo Berlusconi, questa sarà una vittoria politica del governo Berlusconi? O non sarà piuttosto la vittoria di una logica di pace e di vita contro la barbarie? E' un fatto concreto che ridarà forza - e speranza - alla nostra battaglia contro questa guerra e per il ritiro delle nostre truppe?
Sullo sfondo, mi pare, c'è una riflessione sulla politica - la nostra idea di politica, la nostra cultura politica - a cui non possiamo più sfuggire. Nell'era della barbarie che galoppa, lo abbiamo già detto al convegno di Venezia, essa deve compiere, essa sì, una svolta profonda: nel senso della nonviolenza, del suo legame organico con la vita umana, della sua capacità di proporre un messaggio radicalmente alternativo alla violenza distruttiva che ci circonda. Di questa violenza fa parte il terrorismo, che è certo un universo variegatissimo, ma è anche e soprattutto una soggettività politica unitaria, un progetto che nasce nella sfera dell'autonomia del Politico. C'entra con il sequestro in corso? C'entra moltissimo. Solo un'ultima confessione: nelle critiche a Bertinotti, ho sentito aleggiare - non sempre, non in tutti - una ridondanza dell'ideologia, una spietatezza della politica, un'indifferenza alla tragedia in corso e perfino ai risultati possibili, che mi hanno lasciato francamente di sasso. Per la prima volta, penso che nel "politically correct", sì, c'è qualcosa di disumano.
Rina Gagliardi