[Forumumbri] articoli di Cavallaro su "impero"

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Author: franco coppoli
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Subject: [Forumumbri] articoli di Cavallaro su "impero"
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L'IMPERO AMERICANO
Il gendarme del libero mercato
LUIGI CAVALLARO
Solo i ciechi e i sordi possono non accorgersi che la guerra in Iraq interroga criticamente la teorica dell'Impero. Un evento che, almeno fenomenologicamente, si presenta come un tipico conflitto interstatale, agito da banali motivi di geopolitica (vulgo, imperialismo), non può non chiamare a un chiarimento quanti - e sono tanti, da Toni Negri e Michael Hardt ad Antonio Baldassarre, passando per Carlo Galli e Sabino Cassese - affermavano, fino a poco tempo fa, che conflitti del genere appartenevano a un'epoca passata e che adesso c'era l'Impero, ossia l'ordinamento giuridico del capitalismo mondializzato, rispetto al quale nulla era più «fuori», al punto che non più di guerre, ma di «operazioni di polizia internazionale» avrebbe potuto (e dovuto) parlarsi. Bisogna dunque dar atto a Toni Negri e Michael Hardt di aver compreso che la possibilità di leggere la bruta materialità dei fatti con l'occhio teorico del modello imperiale non era data nel loro Empire e che occorreva uno sforzo argomentativo ulteriore. Di quest'ultimo, condensato in tre brevi ma densi articoli appena pubblicati sul neonato mensile Global (auguri!), dirò in un prossimo articolo. Mi preme, invece, segnalare in questa sede un singolare articolo del sociologo Maurizio Ferrera, il quale, poco più di un mese fa (e dunque, in piena scienza e coscienza dell'imminenza del conflitto), si è lanciato in un panegirico della novella dottrina, affermando che, in un momento storico come quello attuale, un Impero «è il meglio che possiamo avere» (Lunga vita all'Impero, purché sia liberale, «Il Sole-24 Ore», 16/2).

Vediamo perché. L'assunto da cui muove Ferrera è che la pace fra gli Stati «non si mantiene con le marce e gli appelli ai buoni sentimenti», ma è «il prodotto della politica: che è arte del compromesso (la dimensione più nota), ma sempre praticata all'ombra della minaccia di coercizione (la dimensione spesso dimenticata, ma altrettanto essenziale della politica)». Da decenni a questa parte sono gli Usa a farsi carico di produrre «quest'ombra»: sono gli unici, in concreto, a produrre quegli «importanti beni collettivi, soprattutto sul terreno della sicurezza», che occorrono in un contesto globalizzato quanto a produzione, distribuzione e scambio di merci e denaro, ma ancora incapace di reggersi sull'utopia kantiana della pace perpetua. Ciò è certamente un bene, precisa Ferrera: «Qualcuno pensa che davvero che un concerto fra la force de frappe e gli sgangherati arsenali di Putin possa fornire al mondo quello sfondo di minaccia coercitiva senza il quale non si danno né sicurezza né pace?». La mano invisibile del mercato funziona solo se, in ultima istanza, c'è la mano visibile della forza militare a garanzia dei diritti di proprietà, e un sistema così complesso di scambi che si intersecano ormai in tutto il mondo non può reggersi senza un gendarme che possa punire ovunque chi tenta di barare sul prezzo.

Peraltro, a differenza degli Imperi dell'antichità, caratterizzati da governi dispotici, «gli Stati Uniti sono la prima superpotenza democratica della storia», le cui decisioni si formano in un contesto interno segnato da un «sofisticato sistema di check and balances» e «nel quadro di una densa struttura di organizzazioni internazionali multilaterali (Onu, Nato, Fondo monetario e così via) che gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a creare e rafforzare nel corso dell'ultimo cinquantennio». Quella americana è, dunque, «un'egemonia liberale». In che senso il Ferrera-pensiero costituisce, ad onta del formale omaggio alla nouvelle vague imperiale, la migliore smentita delle sue tesi di fondo? I motivi sono essenzialmente tre.

Va detto, anzitutto, che Ferrera elabora la sua tesi sulla scorta della lettura di una nutrita serie di libri appena pubblicati negli States (e di cui sono autori grossi calibri della politologia d'oltreoceano, come John Ikenberry, Chalmers Johnson o Michael Ignatieff), nei quali si parla non già di «Impero» generaliter, ma di Impero americano. L'aggettivo cozza palesemente con la presunta natura apolide dell'ordinamento imperiale descritto in Empire Toni Negri e Michael Hardt. Ferrera - citando Ikenberry - non solo dà per scontato che l'Impero sia il frutto di un esplicito disegno egemonico (stavo per dire imperialista) a stelle e strisce, ma addirittura si pone il problema che gli Stati Uniti possano usare la forza in modo da frantumare i loro (ex) alleati in gruppi distinti, ciascuno in cerca di accordi separati, secondo la più classica delle logiche della spartizione del mondo in sfere d'influenza.

In secondo luogo, Ferrera muove esplicitamente dalla considerazione secondo cui viviamo «in un mondo senza un governo globale»: l'elogio della «superpotenza», della sua (presunta) capacità ordinatrice, è conseguenza del vuoto di potere che si registrerebbe altrimenti, un vuoto che renderebbe impossibili gli scambi ultrastatali e ad esecuzione differita giacché, essendone incerto il «buon fine», nessuno si arrischierebbe a dedicarcisi. E ciò smentisce l'opposto assunto (che è toccato leggere financo nelle tesi di un importante partito della sinistra italiana) che il processo di globalizzazione, pur non essendo né lineare né privo di contraddizioni, sarebbe tutt'altro che anarchico e incontrollato, essendone «organi decisionali» l'Fmi, la Banca mondiale, la Wto ecc.: la verità è che non solo tali istituzioni «governano» col permesso degli Stati Uniti (e, s'intende, nel loro interesse), ma per di più questi ultimi - come dimostra la mortificazione inflitta all'Onu - sono disposti a buttarle a mare allorché dovessero ardire a pensare con la propria testa e farsi promotrici di un assetto appena meno sensibile agli interessi di Washington.

In terzo luogo, Ferrera chiarisce che la (presunta, giova ripeterlo) capacità ordinatrice della superpotenza americana non è se non la conseguenza «mediata» di un'azione primariamente volta alla tutela dei propri interessi geopolitici. Insomma, non è che gli Stati Uniti abbiano a cuore le sorti del mondo: hanno a cuore le proprie sorti, con le quali si trovano occasionalmente a coincidere quelle di questo o quell'altro angolo di mondo che sia fatto oggetto d'interesse da parte di qualcuna delle rapaci multinazionali (saldamente impiantate sul suolo patrio, come ha documentato James Petras) che ne decidono le linee di politica economica. Il che, a sua volta, inficia la tesi secondo cui l'Impero non avrebbe più un «fuori»: caso mai è vero l'opposto - fuori è tutto ciò che non coincide con gli interessi americani.

Naturalmente, il ragionamento di Ferrera apre molti più problemi di quanti non ne risolva, giacché non è affatto detto che il mondo possa trarre effettivamente benefici - sub specie di produzione di beni collettivi come la sicurezza - dal dispiegarsi dell'egemonia americana. In altri termini, la presunta capacità ordinatrice della superpotenza statunitense è solo una petizione di principio se prima non si chiarisce quali sarebbero gli incentivi dell'establishment a stelle e strisce a produrre e offrire protezione e sicurezza al mondo intero (rinvio sul punto i lettori all'ultimo libro di Mancur Olson, Power and Prosperity, recentemente tradotto in Italia per i tipi dell'Università Bocconi Editore con il titolo Potere e mercati, pp. 168, € 14,98). Resta il fatto che, se egli dovesse avere ragione, saremmo in presenza del più classico dei disegni imperialistici e della complessa architettura imperiale non rimarrebbero che i cocci. Ma ne riparleremo.



Lo Stato dell'ordine imperiale
Una riflessione critica su alcuni, recenti scritti di Michael Hardt e Toni Negri dedicati alla politica «imperiale» di George W. Bush
LUIGI CAVALLARO
«Golpe nell'impero», titola il primo numero (aprile 2003) di Global magazine, il neonato mensile vicino all'ala «disobbediente» del «movimento dei movimenti». La scelta redazionale è azzeccata, visto che il convincimento che fa da sfondo alla maggior parte dei brevi scritti analitici che vi sono contenuti è che, in questi primi mesi dell'anno, sia accaduto qualcosa di latamente accostabile ad un colpo di stato. Ma è anche ambigua: di per sé, «golpe nell'impero» indica un evento (il «golpe») e il luogo in cui esso si sarebbe verificato (l'«Impero»), ma nulla ancora dice della natura del primo (vale a dire, se debba ritenersi frutto di spinte «reazionarie» o «progressive») e della sorte del secondo (vale a dire, se ne risulti «compromesso» o «rafforzato»). Se non m'inganno, un'opzione abbastanza netta per la seconda coppia opposizionale emerge dall'intervento di Michael Hardt, il cui titolo (Il diciotto Brumaio di George W. Bush) è chiaramente ispirato ad uno dei più celebri golpe della storia francese (e mondiale), quello con cui, il 2 dicembre 1851, Luigi Napoleone Bonaparte s'impossessò del potere.

Il ragionamento di Hardt è volto - lo si capisce fin dalle prime battute - a difendere la complessa interpretazione del nuovo ordine globale avanzata insieme a Toni Negri nell'arcinoto Empire e, in particolare, la loro tesi più innovativa, secondo la quale, unificatosi lo spazio globale sotto il comando del capitale, nessuno Stato poteva ormai dirsi portatore di un progetto imperialista, volto cioè a ricercare all'«estero» le condizioni per l'accumulazione capitalistica (si identificassero in un'adeguata domanda effettiva e/o nella disponibilità di forze produttive «naturali» a basso costo), talché la stessa sovranità «monarchica» degli Stati Uniti, essendo inserita in un più vasto reticolo di poteri (includente non solo gli altri Stati-nazione, quanto meno i più «forti» di essi, ma anche le grandi corporations transnazionali), non poteva ritenersi in contraddizione col dispiegarsi di un multilateralismo «aristocratico» nella gestione del potere globale. «Per alcuni aspetti - concede, infatti, Hardt - la guerra in Iraq e l'attuale missione globale del governo Usa sembrano ripetere il vecchio progetto imperialista europeo», sia nei toni (evocativi di una nuova «missione civilizzatrice» dell'Occidente) che nella sostanza («gli sforzi di controllare gli enormi giacimenti petroliferi iracheni e del Medioriente sicuramente richiamano molte guerre imperialiste»).

Ma, nonostante le somiglianze, egli dice, «i vecchi imperialismi non ci aiutano a capire cosa è centrale nella situazione attuale»: anzi, benché «apparentemente calzanti», esempi di tal genere «nascondono quello che sta realmente accadendo», vale a dire «il coup d'etat all'interno del sistema globale - un nuovo diciotto Brumaio».

Cosa intenda per «colpo di stato» Hardt lo spiega subito dopo: si tratta dell'«usurpazione del potere all'interno del palazzo da parte dell'elemento unilaterale monarchico e [del]la corrispondente subordinazione da parte delle forze aristocratiche e multilaterali». In sostanza, nella guida dell'Impero il governo monarchico sarebbe subentrato a quello dell'aristocrazia, di guisa che gli Stati-nazione europei (Francia e Germania in primis) si troverebbero, adesso, «nella posizione dei partiti borghesi nel parlamento francese del XIX secolo, a insistere sul multilateralismo contro l'unilateralismo dell'Imperatore». Messa in questi termini, è evidente che saremmo di fronte ad uno scontro volto a stabilire «la gerarchia del secondo Impero», non certo di una battuta d'arresto nella sua edificazione; detto altrimenti, si profilerebbe un «secondo nuovo ordine mondiale», non già un regresso verso il disordine della conflittualità inter-imperialistica degli albori del secolo breve.

Benché suggestiva, la tesi non mi persuade affatto e proprio alla luce del «precedente» richiamato per supportarla. Per ciò che ho capito io del Diciotto brumaio (che, ricordo, non è solo la data del golpe di Luigi Bonaparte secondo il calendario rivoluzionario, ma anche il titolo del più straordinario degli scritti storici di Marx, espressamente dedicato alla sua analisi), il colpo di stato bonapartista matura a causa dell'incapacità della borghesia francese di gestire la contraddizione irriducibile posta dalla costituzione del 1848 fra il potere legislativo e quello esecutivo, ma non presuppone affatto alcun «contrasto» fra l'«elemento monarchico» e quello «aristocratico»: non solo Bonaparte edifica il proprio dominio nell'interesse della classe borghese, la sua missione anzi essendo proprio quella mantenere intatto il potere sociale di quest'ultima, ma per di più il suo colpo di stato, lungi dal cogliere la borghesia francese impreparata, ne riceve preventivamente l'appoggio. E nessuna delle due cose certamente si può dire a proposito degli attuali rapporti fra gli Stati Uniti e i loro (ex?) alleati europei: se ne accorge lo stesso Hardt, che ad un certo punto del suo discorso deve ammettere che «una Europa unita, le Nazioni Unite e altri poteri multilaterali minacciano di porsi come una alternativa effettiva agli Stati Uniti e di mettere in dubbio la loro superiorità globale»; provate a scrivere che, nella Francia del 1851, i partiti borghesi «minacciavano di porsi come un'alternativa effettiva» a Bonaparte e capirete che si tratta di un'affermazione senza senso.

Insomma, richiamare il Diciotto brumaio per spiegare quanto sta accadendo può andar bene come espediente letterario, non certo come ipotesi analitica. Se proprio voleva cercare un precedente nella storia francese del XIX secolo, Hardt lo avrebbe potuto più convenientemente ritrovare nell'esperienza della monarchia orleanista di Luigi Filippo, che - secondo la ricostruzione fatta da Marx ne Le lotte di classe in Francia - vide il dominio non della borghesia francese nel suo complesso, ma di una sua frazione, quella costituita dall'aristocrazia finanziaria. Ma ciò avrebbe implicato la necessità di negare il presupposto analitico al quale egli non è disposto a rinunciare, vale a dire che il capitale sia unificato e che sotto il suo dominio anche il mondo ormai lo sia: ammettere che c'è una frazione del capitale che cerca di prevalere sulle altre avrebbe infatti messo capo alla necessità di riconoscere che ciascuna di queste frazioni è dotata di un proprio «comitato d'affari» e, per questa via, tutta la problematica dell'imperialismo, che Hardt cerca di scacciare dalla porta, sarebbe rientrata dalla finestra.

E che sia rientrata lo scrive a chiare lettere proprio Toni Negri, schierandosi così per la prima delle coppie opposizionali di cui si diceva in apertura. «L'unilateralismo americano - si legge in uno dei suoi due articoli pubblicati su Global - va sconfitto in quanto tale, in quanto maleodorante e pericolosa riproduzione dell'imperialismo Ancien Régime, in quanto colpo di forza di una classe dirigente corrotta e, essa sì, invecchiata»; né il «multilateralismo imperiale» può essere confuso con l'«unilateralismo imperialista»: al contrario, bisogna ammettere che «il colpo di stato di George W. Bush» non va in direzione di un consolidamento dell'Impero e che un rilancio di quest'ultimo passa per un'alleanza (tattica) fra le «moltitudini» e alcune delle «aristocrazie globali (la tedesca e la francese, ad esempio, ma anche probabilmente la russa e la cinese)».

Il recensore malevolo potrebbe fermarsi qui e magari suggerire che, se basta il primo conservatore di passaggio alla White House per mettere in crisi un modello la cui compiuta esposizione ha richiesto quasi cinquecento pagine di ottima carta, è segno che, nel modello, qualcosa - e qualcosa di grosso - non funziona. Quello pettegolo potrebbe interrogarsi sull'effettiva consistenza di un sodalizio intellettuale che basta quel conservatore di cui si diceva a mandare in pezzi. Ma chi scrive non è e non vuol essere né l'uno né l'altro e, in un precedente articolo (Il gendarme del libero mercato, 20 aprile), ha già dato atto a Negri e Hardt di aver compreso che la possibilità di leggere la bruta materialità dei fatti recenti con l'occhio teorico del modello imperiale non era data nel loro opus maximum e occorreva uno sforzo argomentativo ulteriore.

Tuttavia, di fronte a quelle che gli epistemologi definirebbero senz'altro «ipotesi ad hoc», vien fatto di pensare che il problema fondamentale di Empire sia quello di aver troppo sbrigativamente dichiarato la morte dello Stato. Sovviene al riguardo una vecchia (ma non invecchiata) raccomandazione di Massimo Severo Giannini, insigne maestro di generazioni di giuristi: «quella "crisi dello Stato" di cui tanti politologi parlano così malamente, quasi che si prospettasse una fine della figura "Stato" o un superamento della realtà Stato con figure diverse», è dovuta al fatto che le amministrazioni statali «hanno perduto attribuzioni o sono state dequotate quanto a valori rappresentativi»; ciò concesso, esse conservano ancora, se non primazia, certamente «centralità di affluenze», e «seppure si costituiranno organizzazioni superstatali più compatte e salde, è difficilmente prospettabile che gli Stati possano scomparire, poiché ormai le accumulazioni della storia li hanno resi enti esponenziali di collettività individue». È evidente - concludeva Giannini - che su queste tematiche «i futurologi trovano abbondanti pascoli». Ma è parimenti evidente che l'inserimento delle amministrazioni statali in reticoli sovrastatuali più o meno estesi e vincolanti non ha niente a che vedere con la «fine dello Stato» di cui si straparla: «l'eliminazione degli Stati, almeno per un lungo periodo, è improbabile». Che avesse ragione?


francoppoli@???


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L'assunto da cui muove Ferrera è che la pace fra gli Stati «non si mantiene con le marce e gli appelli ai buoni sentimenti», ma è «il prodotto della politica: che è arte del compromesso (la dimensione più nota), ma sempre praticata all'ombra della minaccia di coercizione (la dimensione spesso dimenticata, ma altrettanto essenziale della politica)». Da decenni a questa parte sono gli Usa a farsi carico di produrre «quest'ombra»: sono gli unici, in concreto, a produrre quegli «importanti beni collettivi, soprattutto sul terreno della sicurezza», che occorrono in un contesto globalizzato quanto a produzione, distribuzione e scambio di merci e denaro, ma ancora incapace di reggersi sull'utopia kantiana della pace perpetua. Ciò è certamente un bene, precisa Ferrera: «Qualcuno pensa che davvero che un concerto fra la </SPAN><SPAN class=testo1><I>force de frappe</I> e gli sgangherati arsenali di Putin possa fornire al mondo quello sfondo di minaccia coercitiva senza il quale non si danno né sicurezza né pace?». 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Ferrera - citando Ikenberry - non solo dà per scontato che l'Impero sia il frutto di un esplicito disegno egemonico (stavo per dire imperialista) a stelle e strisce, ma addirittura si pone il problema che gli Stati Uniti possano usare la forza in modo da frantumare i loro (ex) alleati in gruppi distinti, ciascuno in cerca di accordi separati, secondo la più classica delle logiche della spartizione del mondo in sfere d'influenza.</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>In secondo luogo, Ferrera muove esplicitamente dalla considerazione secondo cui viviamo «in un mondo senza un governo globale»: l'elogio della «superpotenza», della sua (presunta) capacità ordinatrice, è conseguenza del vuoto di potere che si registrerebbe altrimenti, un vuoto che renderebbe impossibili gli scambi ultrastatali e ad esecuzione differita giacché, essendone incerto il «buon fine», nessuno si arrischierebbe a dedicarcisi. E ciò smentisce l'opposto assunto (che è toccato leggere financo nelle tesi di un importante partito della sinistra italiana) che il processo di globalizzazione, pur non essendo né lineare né privo di contraddizioni, sarebbe tutt'altro che anarchico e incontrollato, essendone «organi decisionali» l'Fmi, la Banca mondiale, la Wto ecc.: la verità è che non solo tali istituzioni «governano» col permesso degli Stati Uniti (e, s'intende, nel loro interesse), ma per di più questi ultimi - come dimostra la mortificazione inflitta all'Onu - sono disposti a buttarle a mare allorché dovessero ardire a pensare con la propria testa e farsi promotrici di un assetto appena meno sensibile agli interessi di Washington.</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>In terzo luogo, Ferrera chiarisce che la (presunta, giova ripeterlo) capacità ordinatrice della superpotenza americana non è se non la conseguenza «mediata» di un'azione primariamente volta alla tutela dei propri interessi geopolitici. 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Bush</SPAN></SPAN><BR><SPAN class=firma1><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: Verdana">LUIGI </SPAN></SPAN><SPAN class=firma1><B><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; COLOR: blue; FONT-FAMILY: Verdana">CAVALLARO</SPAN></B></SPAN><BR><SPAN class=testo1><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: Verdana">«Golpe nell'impero», titola il primo numero (aprile 2003) di </SPAN></SPAN><SPAN class=testo1><I><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: Verdana">Global magazine</SPAN></I></SPAN><SPAN class=testo1><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: Verdana">, il neonato mensile vicino all'ala «disobbediente» del «movimento dei movimenti». La scelta redazionale è azzeccata, visto che il convincimento che fa da sfondo alla maggior parte dei brevi scritti analitici che vi sono contenuti è che, in questi primi mesi dell'anno, sia accaduto qualcosa di latamente accostabile ad un colpo di stato. Ma è anche ambigua: di per sé, «golpe nell'impero» indica un evento (il «golpe») e il luogo in cui esso si sarebbe verificato (l'«Impero»), ma nulla ancora dice della natura del primo (vale a dire, se debba ritenersi frutto di spinte «reazionarie» o «progressive») e della sorte del secondo (vale a dire, se ne risulti «compromesso» o «rafforzato»). Se non m'inganno, un'opzione abbastanza netta per la seconda coppia opposizionale emerge dall'intervento di Michael Hardt, il cui titolo (</SPAN></SPAN><SPAN class=testo1><I><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: Verdana">Il diciotto Brumaio di George W. Bush</SPAN></I></SPAN><SPAN class=testo1><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; FONT-FAMILY: Verdana">) è chiaramente ispirato ad uno dei più celebri golpe della storia francese (e mondiale), quello con cui, il 2 dicembre 1851, Luigi Napoleone Bonaparte s'impossessò del potere.</SPAN></SPAN><SPAN style="FONT-SIZE: 10pt; COLOR: black; FONT-FAMILY: Verdana"><BR><BR><SPAN class=testo1>Il ragionamento di Hardt è volto - lo si capisce fin dalle prime battute - a difendere la complessa interpretazione del nuovo ordine globale avanzata insieme a Toni Negri nell'arcinoto </SPAN><SPAN class=testo1><I>Empire</I> e, in particolare, la loro tesi più innovativa, secondo la quale, unificatosi lo spazio globale sotto il comando del capitale, nessuno Stato poteva ormai dirsi portatore di un progetto imperialista, volto cioè a ricercare all'«estero» le condizioni per l'accumulazione capitalistica (si identificassero in un'adeguata domanda effettiva e/o nella disponibilità di forze produttive «naturali» a basso costo), talché la stessa sovranità «monarchica» degli Stati Uniti, essendo inserita in un più vasto reticolo di poteri (includente non solo gli altri Stati-nazione, quanto meno i più «forti» di essi, ma anche le grandi </SPAN><SPAN class=testo1><I>corporations</I> transnazionali), non poteva ritenersi in contraddizione col dispiegarsi di un multilateralismo «aristocratico» nella gestione del potere globale. «Per alcuni aspetti - concede, infatti, Hardt - la guerra in Iraq e l'attuale missione globale del governo Usa sembrano ripetere il vecchio progetto imperialista europeo», sia nei toni (evocativi di una nuova «missione civilizzatrice» dell'Occidente) che nella sostanza («gli sforzi di controllare gli enormi giacimenti petroliferi iracheni e del Medioriente sicuramente richiamano molte guerre imperialiste»).</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>Ma, nonostante le somiglianze, egli dice, «i vecchi imperialismi non ci aiutano a capire cosa è centrale nella situazione attuale»: anzi, benché «apparentemente calzanti», esempi di tal genere «nascondono quello che sta realmente accadendo», vale a dire «il </SPAN><SPAN class=testo1><I>coup d'etat</I> all'interno del sistema globale - un nuovo </SPAN><SPAN class=testo1><I>diciotto Brumaio</I>».</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>Cosa intenda per «colpo di stato» Hardt lo spiega subito dopo: si tratta dell'«usurpazione del potere all'interno del palazzo da parte dell'elemento unilaterale monarchico e [del]la corrispondente subordinazione da parte delle forze aristocratiche e multilaterali». In sostanza, nella guida dell'Impero il governo monarchico sarebbe subentrato a quello dell'aristocrazia, di guisa che gli Stati-nazione europei (Francia e Germania </SPAN><SPAN class=testo1><I>in primis</I>) si troverebbero, adesso, «nella posizione dei partiti borghesi nel parlamento francese del XIX secolo, a insistere sul multilateralismo contro l'unilateralismo dell'Imperatore». Messa in questi termini, è evidente che saremmo di fronte ad uno scontro volto a stabilire «la gerarchia del secondo Impero», non certo di una battuta d'arresto nella sua edificazione; detto altrimenti, si profilerebbe un «secondo nuovo ordine mondiale», non già un regresso verso il disordine della conflittualità inter-imperialistica degli albori del secolo breve.</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>Benché suggestiva, la tesi non mi persuade affatto e proprio alla luce del «precedente» richiamato per supportarla. Per ciò che ho capito io del </SPAN><SPAN class=testo1><I>Diciotto brumaio</I> (che, ricordo, non è solo la data del golpe di Luigi Bonaparte secondo il calendario rivoluzionario, ma anche il titolo del più straordinario degli scritti storici di Marx, espressamente dedicato alla sua analisi), il colpo di stato bonapartista matura a causa dell'incapacità della borghesia francese di gestire la contraddizione irriducibile posta dalla costituzione del 1848 fra il potere legislativo e quello esecutivo, ma </SPAN><SPAN class=testo1><I>non</I> presuppone affatto alcun «contrasto» fra l'«elemento monarchico» e quello «aristocratico»: non solo Bonaparte edifica il proprio dominio nell'interesse della classe borghese, la sua missione anzi essendo proprio quella mantenere intatto il potere sociale di quest'ultima, ma per di più il suo colpo di stato, lungi dal cogliere la borghesia francese impreparata, ne riceve preventivamente l'appoggio. E nessuna delle due cose certamente si può dire a proposito degli attuali rapporti fra gli Stati Uniti e i loro (ex?) alleati europei: se ne accorge lo stesso Hardt, che ad un certo punto del suo discorso deve ammettere che «una Europa unita, le Nazioni Unite e altri poteri multilaterali minacciano di porsi come una alternativa effettiva agli Stati Uniti e di mettere in dubbio la loro superiorità globale»; provate a scrivere che, nella Francia del 1851, i partiti borghesi «minacciavano di porsi come un'alternativa effettiva» a Bonaparte e capirete che si tratta di un'affermazione senza senso.</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>Insomma, richiamare il </SPAN><SPAN class=testo1><I>Diciotto brumaio</I> per spiegare quanto sta accadendo può andar bene come espediente letterario, non certo come ipotesi analitica. Se proprio voleva cercare un precedente nella storia francese del XIX secolo, Hardt lo avrebbe potuto più convenientemente ritrovare nell'esperienza della monarchia orleanista di Luigi Filippo, che - secondo la ricostruzione fatta da Marx ne </SPAN><SPAN class=testo1><I>Le lotte di classe in Francia</I> - vide il dominio </SPAN><SPAN class=testo1><I>non</I> della borghesia francese nel suo complesso, ma di una sua </SPAN><SPAN class=testo1><I>frazione</I>, quella costituita dall'aristocrazia finanziaria. Ma ciò avrebbe implicato la necessità di negare il presupposto analitico al quale egli non è disposto a rinunciare, vale a dire che il capitale sia unificato e che sotto il suo dominio anche il mondo ormai lo sia: ammettere che c'è una frazione del capitale che cerca di prevalere sulle altre avrebbe infatti messo capo alla necessità di riconoscere che ciascuna di queste frazioni è dotata di un proprio «comitato d'affari» e, per questa via, tutta la problematica dell'imperialismo, che Hardt cerca di scacciare dalla porta, sarebbe rientrata dalla finestra.</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>E che sia rientrata lo scrive a chiare lettere proprio Toni Negri, schierandosi così per la prima delle coppie opposizionali di cui si diceva in apertura. «L'unilateralismo americano - si legge in uno dei suoi due articoli pubblicati su </SPAN><SPAN class=testo1><I>Global</I> - va sconfitto in quanto tale, in quanto maleodorante e pericolosa riproduzione dell'imperialismo </SPAN><SPAN class=testo1><I>Ancien Régime</I>, in quanto colpo di forza di una classe dirigente corrotta e, essa sì, invecchiata»; né il «multilateralismo imperiale» può essere confuso con l'«unilateralismo imperialista»: al contrario, bisogna ammettere che «il colpo di stato di George W. Bush» non va in direzione di un consolidamento dell'Impero e che un rilancio di quest'ultimo passa per un'alleanza (tattica) fra le «moltitudini» e alcune delle «aristocrazie globali (la tedesca e la francese, ad esempio, ma anche probabilmente la russa e la cinese)».</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>Il recensore malevolo potrebbe fermarsi qui e magari suggerire che, se basta il primo conservatore di passaggio alla White House per mettere in crisi un modello la cui compiuta esposizione ha richiesto quasi cinquecento pagine di ottima carta, è segno che, nel modello, qualcosa - e qualcosa di grosso - non funziona. Quello pettegolo potrebbe interrogarsi sull'effettiva consistenza di un sodalizio intellettuale che basta quel conservatore di cui si diceva a mandare in pezzi. Ma chi scrive non è e non vuol essere né l'uno né l'altro e, in un precedente articolo (</SPAN><SPAN class=testo1><I>Il gendarme del libero mercato</I>, 20 aprile), ha già dato atto a Negri e Hardt di aver compreso che la possibilità di leggere la bruta materialità dei fatti recenti con l'occhio teorico del modello imperiale non era data nel loro </SPAN><SPAN class=testo1><I>opus maximum</I> e occorreva uno sforzo argomentativo ulteriore.</SPAN><BR><BR><SPAN class=testo1>Tuttavia, di fronte a quelle che gli epistemologi definirebbero senz'altro «ipotesi </SPAN><SPAN class=testo1><I>ad hoc</I>», vien fatto di pensare che il problema fondamentale di </SPAN><SPAN class=testo1><I>Empire</I> sia quello di aver troppo sbrigativamente dichiarato la morte dello Stato. Sovviene al riguardo una vecchia (ma non invecchiata) raccomandazione di Massimo Severo Giannini, insigne maestro di generazioni di giuristi: «quella "crisi dello Stato" di cui tanti politologi parlano così malamente, quasi che si prospettasse una fine della figura "Stato" o un superamento della realtà Stato con figure diverse», è dovuta al fatto che le amministrazioni statali «hanno perduto attribuzioni o sono state dequotate quanto a valori rappresentativi»; ciò concesso, esse conservano ancora, se non primazia, certamente «centralità di affluenze», e «seppure si costituiranno organizzazioni superstatali più compatte e salde, è difficilmente prospettabile che gli Stati possano scomparire, poiché ormai le accumulazioni della storia li hanno resi enti esponenziali di collettività individue». È evidente - concludeva Giannini - che su queste tematiche «i futurologi trovano abbondanti pascoli». Ma è parimenti evidente che l'inserimento delle amministrazioni statali in reticoli sovrastatuali più o meno estesi e vincolanti non ha niente a che vedere con la «fine dello Stato» di cui si straparla: «l'eliminazione degli Stati, almeno per un lungo periodo, è improbabile». Che avesse ragione?</SPAN></SPAN></P></DIV><BR><BR>francoppoli@???<p><br><hr size=1><A HREF="http://it.yahoo.com/mail_it/foot/?http://it.mobile.yahoo.com/index2002.html"><b>Yahoo! Cellulari</a></b>: loghi, suonerie, picture message per il tuo telefonino
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