Author: Carlo Mileti Date: Subject: [Lecce-sf] Fw: Portare testimonianza/4 - Baghdad, 26 Novembre 2002
se può interessare.....
----- Original Message -----
From: "Giorgio Lavelli" <giorgiolavelli@???>
To: <news@???>
Sent: Friday, March 07, 2003 8:27 PM
Subject: Portare testimonianza/4 - Baghdad, 26 Novembre 2002
> Se non hai piacere di ricevere, in futuro, i messaggi che raccontano i
> prossimi passi di questo viaggio, inviami una e-mail vuota con oggetto
> "cancellami dall'elenco" all'indirizzo <giorgiolavelli@???>. E
> scusami dell'intrusione.
>
> Se, invece, conosci altre persone interessate al contenuto di questo
> messaggio, sentiti libero/a di inoltrare loro questa e-mail oppure se
> preferisci, e loro sono d'accordo, comunicami il loro indirizzo di posta
> elettronica in modo che io possa inviargli il resoconto delle prossime
> tappe di questa testimonianza.
> --------------------------------------
>
> Baghdad, 26 Novembre 2002
>
> VOLANDO NELLA ZONA INTERDETTA AL VOLO
>
>
> Segreti. Sotto di me vedo strade, agglomerati di case fatte con mattoni di
> fango ed edifici agricoli, tratti di terra coltivata. Quattro giorni dopo,
> tornando a Baghdad per via terra, rivedo la stessa area da una prospettiva
> diversa. Mentre i chilometri si succedono monotoni, guardo fisso dal
> finestrino del fuoristrada: per qualche motivo imprecisato, la mia mente
> snocciola una serie di aggettivi che cominciano per 'd': devastato,
> degradato, derelitto, desolato... Capanne di fango a una stanza, bambini
> coi piedi scalzi, cani scheletrici a caccia di avanzi: i segreti
> stereotipi della povertà ci sono tutti. Segreti perché li costeggiamo
> frettolosamente in macchina, o li sorvoliamo in aereo scuotendo la testa
> rassegnati, senza mai spezzare il guscio del loro segreto: cosa si prova a
> essere condannati a non avere scelta.
> Mentre l'aereo vira disegnando un ampio cerchio attorno a Basra, immagino
> come dev'essere facile giocare a far fuori i minuscoli autocarri
> giocattolo là sotto. Nel porto, due grandi scafi d'acciaio giacciono
> sull'acqua riversi su un fianco. Due giorni più tardi, alcuni di noi
> raggiungono a sud il confine con il Kuwait, fermandosi a un cimitero di
> veicoli lungo una delle tante "autostrade della morte" dove gli iracheni
> in fuga dal Kuwait caddero vittime di una "battuta al tacchino", per dirla
> con i piloti dei caccia. Carcasse carbonizzate di autocarri, autobus, auto
> e carri armati sono sparpagliate lungo un'area di parecchi acri. Ci dicono
> di non toccare nulla, perché gli americani usavano proiettili all'uranio
> impoverito per perforare i rivestimenti dei carri armati, e le polveri,
> diffuse nell'aria e nel suolo, ancora fanno scattare i contatori geiger.
> Guardo lo scheletro di un autobus abbandonato sulla sabbia, arrugginito,
> con mezzo tetto sfondato. Mi vengono in mente certe foto di autobus
> israeliani sventrati dalle bombe, sporchi di sangue, l'aria piena del
> pianto dei familiari delle vittime. Ma il pianto per i morti di questo
> autobus è da lungo tempo caduto nel silenzio. Fisso attonito i pochi
> sedili superstiti, le molle messe nudo che gettano ombre sinistre sul
> pavimento. Segreti.
> Atterriamo incolumi. Guardo i passeggeri, uomini per lo più, che si
> salutano con una stretta di mano, baciandosi sulle guancie, portandosi una
> mano al cuore. Ricordo che una volta, all'aeroporto di Denver, notai un
> uomo, riconoscibile come arabo all'aspetto, che si faceva strada fra la
> folla: pensavo come doveva sentirsi a essere l'oggetto del generale
> malcelato sospetto. Ora mi trovo nella sua posizione, viste le migliaia di
> uomini armati del mio paese pronti all'attacco a 40 miglia da qui. Ma non
> percepisco odio da parte di questa gente. Quando sorrido, faccio un cenno
> con la testa, e dico "A'salaam alleikum" (la pace sia con te) rivolto a un
> estraneo, invariabilmente annuiscono e rispondono: "Altrettanto, pace a te". > Il nostro primo pomeriggio a Basra lo passiamo all'ospedale pediatrico, il
> presidio locale per l'oncologia infantile. Dai tempi della guerra del
> Golfo c'è stato un drastico aumento di casi di leucemia, linfoma, cancro
> del seno, della pelle e del polmone, per non parlare delle malattie da
> malnutrizione. Un certo dott. Jamash ci riceve e ci descrive pazientemente
> lo scenario ormai familiare: mancano farmaci, fiale per la chemioterapia,
> macchine per la radioterapia, denaro per pagare medici e infermieri.
> "L'embargo economico ha distrutto tutto", dice senza emozione apparente.
> Il dott. Jamash ci parla di un'allarmante crescita di "casi anomali mai
> visti prima", deformità congenite, bambini nati senza occhi, senza faccia,
> o con arti mancanti.
> L'ospedale è squallido, malconcio, con le finestre e le pareti sudicie. Mi
> ritrovo in una stanza insieme a perlomeno otto madri in nero che
> accudiscono i loro bimbi malati. Comincio a scattare istantanee, mostrando
> loro il risultato sul piccolo schermo della mia macchina fotografica
> digitale. Le donne ridono, indicano la loro immagine e mi chiedono di fare
> altre foto. L'atmosfera diventa allegra, i bambini malati con i faccini
> smunti sorridono, le vecchie nonne radunano i familiari per un'altra
> istantanea.
> Il mattino seguente alcuni di noi vanno a sud, vicino alla "strada della
> morte", fino a Safwan, una cittadina polverosa sul confine col Kuwait dove
> nel 1991 fu firmato il cessate il fuoco con gli americani. Rintracciamo la
> casa di una certa famiglia di contadini, dove c'è un bambino che sappiamo
> affetto da un cancro alla pelle. Era nato sei mesi prima della guerra del
> Golfo, subito dopo la quale sono comparsi i primi sintomi del tumore.
> All'epoca i genitori vivevano e lavoravano in una piccola fattoria vicino
> alla quale erano stati colpiti molti carri iracheni con proiettili
> all'uranio impoverito. In questo momento vorrei smettere di scrivere,
> vorrei evitare a voi e a me di ricordare, di profanare il segreto
> custodito in un misero edificio con le pareti di fango su una strada
> desolata di una remota cittadina, con la sua soglia ben spazzata, con il
> pavimento della piccola stanza senza finestre ricoperta di stuoie di
> palma, con il solitario orologio e il calendario appesi alla parete che
> segnano il senso del tempo con sontuose immagini della grande moschea
> della Mecca, e la sua targa sbreccata con su scritto in caratteri arabi
> "Che Allah benedica Mohammed e la sua famiglia". Entriamo e ci sediamo
> lungo le pareti. Il vano della porta si oscura della figura della nonna,
> rivestita di un abaya2 nero, che si prepara a far fronte all'inattesa
> invasione di stranieri, sospingendo dentro il ragazzo con la mano.
> Si chiama Naathn Massim. Indossa una sudicia tuta felpata con un berretto
> in tinta con su scritto "Camps Fashion". Tiene la testa bassa, il mento
> sul petto, tamponandosi con un fazzoletto appallottolato le piaghe aperte
> sul volto. Il naso è mezzo mangiato, come pure gli occhi. Veniamo a sapere
> che tre settimane fa è diventato completamente cieco. Naathn si mette
> seduto accanto alla nonna, che risponde alle nostre domande. Il ragazzo è
> stato visto dai medici a Safwan e Basra, ci dice, ma non c'è più niente da
> fare. "Allah kareem", dice: "Dio provvede". Le mani di Naathn passano dal
> tamponare il naso a scacciare lo sciame di mosche che continua a
> posarglisi addosso. Neville, un religioso di 72 anni membro della nostra
> missione di pace, comincia a piangere. Una voragine senza fondo di dolore
> ci si apre dentro, dolore per il ragazzo, per la sua famiglia, il suo
> paese, il nostro paese, per noi stessi. Se potessimo, ricacceremmo via il
> segreto che abbiamo messo a nudo, lo sporco segreto della carne in
> putrefazione di un ragazzino di undici anni, risultato finale di studiati
> attacchi e contrattacchi ordinati da adulti in remote stanze ben illuminate. > Forse è solo questo che posso dire. Forse questo è il motivo per cui sono
> venuto in Iraq, per testimoniare questo segreto. Forse questo è il massimo
> che una missione di pace come la nostra può sperare di ottenere: guardare
> in faccia per un attimo tutto ciò che si perde nella catastrofe della
> violenza, e continuare a riconfermare l'impegno in favore della vita.
> Quella notte, quattro di noi sono ospiti di una famiglia nel quartiere
> povero di Basra, Jumariyah. Seduti sulla veranda prospiciente la strada
> polverosa, dozzine di ragazzini ci si affollano intorno. Ho cominciato a
> cantare per loro, e a insegnargli alcune battute da ripetere dopo di me.
> Sei o sette bambini, all'incirca dell'età di Naathn, si aggrappano a me
> insistendo che continui a cantare. Mi torna in mente una canzone che
> cantavo ai miei figli, "Gospel Train". I bambini fanno festa e battono le
> mani al ritornello: " A bordo piccolini, a bordo piccolini, a bordo
> piccolini, c'è posto per mill'e più!". Il suono delle nostre canzoni sale
> verso il cielo scuro, su nella no-fly zone, e oltre.
>
> Elias Amidon
>
>
>
> 2 NdT: l'abaya è una tunica con maniche, lunga fino alla caviglia
>
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