Roma, giugno 2002. La FAO si appresta a celebrare il
suo ennesimo fallimento.Le ambiziose previsioni del
1996, secondo le quali il numero di persone che
soffrono la fame (attualmente attestato al di sopra
degli 800 milioni) dovrebbe dimezzarsi entro il 2015,
trovano già la loro smentita: la tendenza in atto è
quella contraria!
Nonostante ciò, i dirigenti della FAO rilasciano
dichiarazioni di fuoco sugli Stati che non hanno
attuato le loro direttive. Non è forse lo stesso
atteggiamento che assume il Fondo Monetario quando
verifica il fallimento, in questo o in quel paese, dei
suoi famigerati piani di aggiustamento strutturale?
E' per questo che occorre levare la propria voce,
appoggiando le rivendicazioni contenute nell'appello
alla mobilitazione lanciato da 32 esponenti di
comunità indigene rispetto al vertice FAO.
Rivendicazioni sostenute dai/lle contadini/e di ogni
dove. Rivendicazioni, però, che -per quanto avanzate,
in alcuni casi (si pensi alla richiesta di tenere il
WTO fuori dalle scelte agricole)- non risolvono il
problema alla radice, creando al limite un riparo
dagli effetti più devastanti dell'offensiva attuale
del capitale, tesa a creare forme sempre più intense
di sfruttamento.
D'altra parte non si può liberare la sola agricoltura
in un mondo dominato dalla logica del mercato. "Il
cibo non è una merce", si sente dire spesso, ed è
un'affermazione condivisibile, ma va specificata. Se
alcuni paesi producono merci agricole da esportazione
e la loro popolazione muore di fame, ciò rimanda alla
divisione internazionale del lavoro, che gli ha
assegnato priorità e scopi produttivi tali da non
rispettare i bisogni delle comunità locali. Ma tale
divisione del lavoro non riguarda solo l'agricoltura.
Nel sistema capitalistico le attività economiche sono
strettamente interrelate e non è possibile creare
nicchie produttive fuori dalla logica del profitto. In
sostanza, la lotta lanciata nell'appello dei 32 deve
intendersi come parte di una più generale battaglia
affinchè gli/le sfruttati/e e gli/le oppressi/e
decidano da sè come e cosa produrre in ogni ramo
dell'attività umana. Si tratta, certo, di un obiettivo
raggiungibile solo al culmine di un lungo processo,
segnato dalla conquista di una sempre maggiore unità
tra i soggetti sociali che intendono rovesciare questo
mondo capovolto. Parliamoci chiaro: se alcune parole
d'ordine possono sembrare poco avanzate, ciò è dovuto
ai rapporti di forza attualmente vigenti sul piano
planetario, al fatto che il proletariato universale
continua ad essere diviso.
Per questo dobbiamo usare una scadenza come l'8
giugno, contraddistinta dalla presenza reale o
simbolica di molte comunità di oppressi/e, per
superare ogni frammentazione. Per spingere in avanti
quella stessa lotta comune tra lavoratori/trici
italiani/e immigrati/e che a Vicenza ha trovato un
importante momento di verifica.
Contro il capitale e la sua logica di sterminio, per
l'unità del proletariato universale!
La redazione di "Corrispondenze metropolitane" (Roma)
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